Domenico di Palo

VITO SANTORO*


  La poesia di Domenico di Palo vive da sempre nell’ottica della rassegna ironica dei dati autobiografici, del loro ragguaglio e del loro guazzabuglio. E questa sua nuova raccolta, indicativa fin dal titolo Estravaganti (come è noto, gli “estravaganti” sono, secondo la tradizione, quegli scritti minori sparsi che l’autore non ha incluso in raccolte da lui curate: l’esempio più famoso è probabilmente rappresentato dai,  per così dire, dispersi di Francesco Petrarca) è un quaderno “distratto” di appunti, notazioni marginali, umori e malumori, frammenti di ricordo, stati rimossi e sensazioni. Un quaderno che ricompone nella sua approssimazione programmatica il senso di una vita che ci trascina a mete non desiderate, fuori da ogni possibile piano di organizzazione e di sistemazione se non provvisorie.
     Sul nastro a  scorrere delle immagini, continuamene esercita interferenza l’occhio vigile di di Palo, testimone del nostro tempo, attento a cogliere comunque e a registrare sulla cartina di tornasole perfino le vibrazioni di una vicenda comune  e generale. Così, sullo specchio delle personali reazioni e inclinazioni, si disegna anche la radiografia dell’altro da sé, quello che Grazia Distaso in uno dei contributi più lucidi e puntuali dedicata all’opera del poeta tranese (in particolare alla silloge Sotto coperta del 1997) ha definito “la maschera didimea dell’intellettuale disingannato”. E questo - aggiungiamo noi – al passo di una matrice illuministica, della letteratura come parola dell’uomo.
     Di Palo è del resto ben consapevole della particolare condizione di chi vuol farsi poeta, portatore di parole e di messaggi: vede ormai esaurite le risorse comunicative dell’uomo contemporaneo. Così nella sua poesia sono le idee e i pensieri a reggere e ad animare i movimenti del discorso. Un discorso sinuoso di specie meditativa; ma non del genere che approda alla sentenziosità gnomica. Un discorso in cui, facendo leva sui nessi sintattici , i,l pensiero emerge dal suo fondo, chiarendosi  nell’evidenzia  intuitiva di una verità; una verità, appunto, che si dipana come il filo della matassa ingarbugliata; una verità che si tende e si svolge.
     Estravaganti è un piccolo canzoniere. Scorrendo le pagine leggiamo la storia di un uomo che porta con sé il suo passato come un fardello dapprima leggero e inconsistente e poi, con gli anni, sempre più grave. Ciò che pesa non sono tanto le esperienze, gli eventi, i fatti,, ma piuttosto gli interrogativi che essi generano, che non  trovano parole adatte e forse soltanto immagini, enigmi che emergono a tratti, nei momenti più impensati.
     Da qui si leva l voce del poeta che si impone per autorevolezza e insieme pacatezza, rifuggendo da mode o canoni, ma mirando al centro di un percorso teso ad una verità personale, ad una solidità o spessore nell’atteggiamento esistenziale: di Palo dà insomma l’impressione di aver toccato un registro alto e insieme semplice, un tono di grande umanità, che offre al lettore un ambiente mentale nel quale muoversi in ampiezza e in profondità con estremo godimento intellettuale.
     Ma è soprattutto l’Amore l’epicentro di questa nuova raccolta di Domenico di Palo. L’Amore, dunque: tema universale, antico quanto nuovo, forza irragionevole, inquietudine ed ebbrezza, dolore e gioia, naufragio ed approdo, su cui non è facile poetare in tempi in cui tanti (troppi!) ne scrivono, con leggerezza, facilità, retorica, avendo forse, però, smarrito la piena comprensione della profondità di questo sentimento. Sorprendono, perciò, piacevolmente questi versi perché si percepiscono autentici, sinceramente ispirati: “Buondì sentiero dell’amore bello/ con quelle rose che non hanno spine/ e che diritto porta nel castello/ di una felicità senza fine”.
     E un tu femminile compre speso in questa preziosa silloge poetica. Un tu a volte immerso nell’atmosfera onirica che l’Autore, poeta pur non nuovo a composizioni in cui celebrato è il sentimento amoroso, ha saputo sapientemente tratteggiare, dipingendola con tocco impressionista, conferendole un’aura d’indefinitezza che la consegna alla dimensione astratta, ideale. La donna arpeggia il silenzio; è una figura inafferrabile, pur alludendo ad “oggetti” concreti. Ondeggiando tra sonno e veglia, tra sogno e realtà, tra ricordo e quotidianità, tra ombra e luce, fra tramonto e aurora, in un continuo gioco di chiaroscuri, con versi lievi e delicati, che non mancano di stupire per la semplicità e l’immediatezza, nonostante tradiscano il dotto retroterra culturale dell’Autore, l’io lirico si muove fra i silenzi, il buio, il ricordo sonnolento, le sfumate similitudini. E’ come se il Poeta avesse scelto il silenzio per urlare e imporre il suo amore, fatto di certezze, di bisogno di protezione, di cupi presagi e disincanti, d’esitazioni, di smarrimenti, di piccola  tenera bastevole gioia, ma anche di timori, soprattutto quello di perdere la sua felicità, di perdere quell’amore così dilagante per una donna che appare incorporea, eterea, impalpabile, sfuggente.
    L’esperienza di vita confluisce nella poesia, e il poeta guarda a tutto nella prospettiva della donna amata, investendo ogni oggetto del suo sentimento amoroso. Così l’amore diviene vita e luce, la morte buio e tenebra perenne, anche se talvolta le due dimensioni paiono incontrarsi e camminare insieme per correre incontro all’unica salda certezza del momento che, luminosa, riverbera lontano i suoi bagliori: l’Amore con la A maiuscola.
   Ed avvince l’atmosfera romantica e la serpeggiante dimensione sotterranea, quasi claustrofobica (ma l’amore si nutre anche della dimensione tenebrosa) che permea i versi, il paesaggio crepuscolare entro cui fluiscono e s’incastonano le emozioni, ed anche convince lo stile puro ed elegante, il linguaggio terso, limpido, semplice, felice sintesi di elaborazione personale, poesia classica e poesia del Novecento (si pensi alla sezione della silloge intitolata Xenia, cioè doni votivi inviati a qualcuno che si era avuto ospite, per dirla con Marziale; ma Xenia è anche il titolo di due sezioni di Satura di Montale del 1971:  e in Montale - come  in di Palo – le poesie sono doni mandati dal poeta alla donna che era stata ospite della sua vita). Sommessamente, quasi con pudore, come in una sorta di diario intimo, tra timido desiderio e quieta gioia, Domenico di Palo, con grazia e dolcezza, in suggestiva levità, parla d’amore, in tempi in cui nel mondo cupamente sembra prevalere l’opposto sentimento. E’ forse l’amore dunque - inteso anche come amore per la poesia -  l’unico antidoto contro la prosa vuota di coloro che teorizzano - come si legge in uno dei componimenti più amaramente ironici  di Estravaganti, dal titolo “Voi” – la dottrina  del niente “sproloquiando in modo indecente”.


Vito Santoro



* In “Incroci”, Bari, dicembre 2011

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