Domenico di Palo

MARCO I. DE SANTIS


Un criterio indubbiamente utile in sede critica è la rilettura di un’opera letteraria alla distanza di un certo lasso temporale, in modo da consentire, “a freddo”, un più pacato riesame del lavoro e una verifica il meno possibile influenzata vuoi dall’atmosfera di variabile entusiasmi legata all’intrapresa editoriale, vuoi dei giudizi immediatamente successivi alla pubblicazione dei testi, vuoi dalle mode e dagli orientamenti del momento. Fatta questa premessa, si può favorevolmente constatare che ad un lustro dall’apparizione volume di Domenico di Palo “La bella sorte e altri versi” (Bari, Editrice la Vallisa, 1985), la raccolta, complessivamente considerata, niente ha perduto del suo smalto iniziale e, come graffiante e sofferta testimonianza di un poeta e della sua generazione, si lascia rileggere con partecipazione e profitto.

La silloge raduna documenti umani e poetici stratificati dal 1960 al 1984, i quali, se aprono stilisticamente e cronologicamente eterogenei, trovano poi il loro centro più vero nell’autonomia dei singoli componimenti e nell’individualità unificante dell’autore che, guardando al suo passato prossimo, annota, in fondo al volume, come “nella prospettiva del tempo anche il lavoro di venticinque anni si riduce ad un sol punto”.

Domenico di Palo ha debuttato nel 1959 con un libro di poesie emblematicamente intitolato “Foglie” (Milano, Gastaldi, in cui evidente è la dimensione lirica. A tale temperie si riaccostano i testi, presenti ne “La bella sorte”, della sezione “Bivacco”, scritti a poca distanza dall’esordio poetico da un “bracconiere di sogni“ incapace di distogliere lo sguardo dai “cocci” reali e montaliani che scalfiscono il sentimento esistenziale all’apparire di un nuovo anno. Ben presto, però, senza cancellare del tutto questo domestico e spirituale lirismo, s’insinua e fermenta con un continuo crescendo, fino a estrinsecarsi come deciso timbro ironico, la dimensione morale, che si configura quale idealità civile, attenzione sociologica e passione politica. A volte tale fuoco politico può mascherarsi o tradursi in settarismo, eppure “è soltanto/ gusto etico della vita” (p. 67), per dirla con l’autore.

Nella sezione “Ormai non c’è silenzio” eticità e liricità, nel colloquio rivolto agli amici, s’intrecciano senza sostanziali squilibri: “E se pensavo/ che per una tua mano di biacca/ tutto si faceva discreto,/ tutto si stemperava,/ come la fuliggine posta/ su questi muri sporchi,/ io non ti potevo capire./ Disseccata - pensavo -/ come le fosse d’acqua d’estate/ la nostra fede muore nel silenzio/ e il male riemerge/ da chi se la cava ancora/ a buon mercato” (“Passavamo le sere discutendo con passione”).

In virtù di tali considerazioni si corrobora la necessità di continuare a lottare nonostante tutto: “In quell’immensa fiera della volgarità/ dove aveva la vita facile/ solo chi vantava il possesso e la rabbia/ non sempre potevamo coprirci/ dai colpi di tante canaglie/ e pagare ogni debito/ e gridare ogni giorno/ la nostra grande voglia/ di seppellire il male./ Eri stanco,/ ma per strapparti di dosso/ quella tua stanchezza/ - ch’era pure la nostra -/ non ti dicevo di aspettare la fine/ ma di cominciare da capo,/ anche se la voce s’era fatta rauca/ e il cuore più vecchio” (“E il cuore più vecchio”).

Siamo, per l’Italia, negli anni del boom economico, delle migrazioni interne, del primo governo con l’appoggio esterno socialista, del Concilio Vaticano II e della scuola media unificata, e, per il mondo intero, al periodo della Conferenza ginevrina delle 18 potenze per il disarmo, della crisi di Cuba e della successiva fase distensiva che preluderà ai negoziati USA-URSS tra Kennedy e Kruscev per la sospensione degli esperimenti atomici. In questo clima matura la marcia della pace di Altamura del 13 gennaio 1963. L’iniziativa, che non fu esente da polemiche di ordine politico, fu promossa per il disarmo, la distensione internazionale e lo smantellamento delle basi missilistiche da un gruppo di intellettuali baresi, tra cui Tommaso Fiore, e meritò il plauso del filosofo Bertrand Russell con l’esortazione “a raddoppiare gli sforzi in nome del buon senso, della ragione e della sopravvivenza umana”. La marcia ebbe come obiettivo concreto la base NATO di Altamura e come riferimento simbolico tutte le basi di qualsiasi parte della terra. Nella poesia intitolata “La marcia della pace” rivive tutto il fervore di quel freddo pomeriggio domenicale in una giustapposizione contrastativa dove all’esaltazione dei dimostranti corrisponde il riemergere di ataviche paure nelle donne del paese: “Eravamo in tanti/ giunti da ogni parte/ della Puglia e della Lucania/ senza fretta e con la calma di chi sa ciò che vuole/ perché gli è familiare/ come il vestito che i indossa./ E gridando tutti insieme/ andavamo avanti/ tra le pozzanghere nere/ nei vicoli cupi/ sul lucido asfalto./ (…) Avanti,/ gridando tutti insieme/ e quel grido ci esaltava/ e forzava ostinato/ un passo dietro l’altro./ Ai bordi della strada/ avvolte in pesanti scialli neri/ le donne ci aspettavano/ e sentendoci gridare/ piangevano”.

Precedute da una raffica di agitazioni e occupazioni nelle università italiane alla fine del ’67, irrompono poi le utopie sessantottesche e il movimento di protesta, che avranno il più cupo riscontro nell’eccidio milanese di Piazza Fontana (12 dicembre 1969). La poesia “Strage”, non datata (come quasi tutti i testi della raccolta), nasce in margine a questo mestissimo episodio, ma estensivamente può riferirsi anche ai successivi massacri di marca terroristica (le bombe a Piazza della Loggia a Brescia il 2 maggio 1974, sul treno “Italicus” il 4 agosto 1974, alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 e sul rapido Napoli-Milano in una galleria dell’Appennino il 23 dicembre 1984). Il senso d’impotenza dell’autore e il triste monito dei versi non hanno perso nulla del loro valore testimoniale e restano perciò il fulcro di un’epigrafe epicedica di intatta incisività:

E cosa ci resta da dire
per non confondere i vivi
con questi altri morti
per non vedere queste bocche
aprirsi ancora
e la memoria farsi di ombre
e l’amore inghiottito
in una folla di lacrime
e di sangue sempre fresco.
 
Cosa ci resta da dire
se ogni giorno
il delitto si ripete
e la morte se ne viene
biascicando l’insulto
del cecchino fascista.
 
La sezione “In merito” si chiude con l’appalesamento dei sotterranei effetti di condizionamento determinati dai mass-media: “Il mattino comincia con le solite cose/ poi ti metti al lavoro/ e non ti accorgi nemmeno/ che il tuo pensiero somiglia/ all’ultimo slogan di Carosello/ o all’articolo quieto/ letto sul rotocalco/ che hai comprato sabato scorso. (…)”. Si apre così “La giornata” scialba del borghesuccio dagli orizzonti limitati e dal buonsensismo ammuffito, s’infittiscono gl’incontri con un campionario di varia umanità, che va da “La ragazza del treno” alla poetessa, per chiudersi con la condanna, che è anche autocritica, della supponenza verbale delle soluzioni di comodo e dei pronostici confezionati: “In merito/ al misfatto compiuto/ al dialogo avviato/ o al punto di vista/ nel caso indicato/ nel fumo grigiastro/ che c’impasta la bocca/ c’è sempre la soluzione/ che alla fine ci sblocca.// E facciamo pazienti/ la nuova previsione/ che in tempo di precedenti/ ha pure il fascino/ della confezione” (“In merito”).
La riflessione di Domenico di Palo conosce per “Le deduzioni” inevitabili annotate con statistica inflessibilità per un’intera tranche ebdomadaria. E i reperti della sua caustica rassegna sono la fatica della coerenza, il fariseismo borghese, il “formalismo cattolico”, l’ottuso e incosciente neutralismo, la miseria morale del voltagabbana in agonia non avvertita, i freddi schematismi del raziocinio astratto, il conformismo dei benpensanti e il disagio del convivere. Per questo l’amore è intravisto come ultima chance da elemosinare.
Il trittico della sezione “Mani”, oltre a confessare la stanchezza del cuore, si spinge ad ammettere che “la ragione/ non è più che un vizio/ di chi per viltà/ preferisce star solo”. Non si può nascondere neppure la difficoltà “di tirare un po’ le somme”.”Chi potrebbe, allora,/ farsi nostro giudice/ e chi non capirebbe/ questi silenzi enormi/ e queste nostre mani/ che si cercano nel buio”.
Ritorna il privato. Prevale, a questo punto, un atteggiamento di ripiegamento interiore e di cruda analisi che con gli osservati notomizza anche l’osservatore, senza scampo. Al cambiamento storico e sociale si accompagna il mutamento ontogenetico e psicologico vissuto individualmente da tutta una generazione. Siamo al crollo dei miti nati a cavallo del ’68 con l’ultima eco del movimento del ’77, siamo alla caduta delle illusioni, all’abbandono della militanza politica in un irreversibile clima di riflusso. Puntualmente, e in diversi momenti della sua esistenza, pure questa nuova fase viene rubricata dal nostro autore: “Quello che conta/ oggi non ha importanza/ e il resto viene dopo/ con discrezione”(p. 67)., “L’occhio/ l’occhio di schianto/ un occhio nudo/ per una ag favolosa/, e la luna calane dentro il fosso/ della raccolta dei classici della rivoluzione” (p. 106).
La quartina citata appartiene alla sezione “Così - di nuovo”, densamente impregnata dell’atmosfera di stanchezza e di sconfitta di quel periodo: “estenuato e con la bocca muta/ ti reggi sotto una frana/ di sogni di pietra/ e l’amore già suda/ fatiche e pensa”; “Abbiamo fatto la notte/ e la memoria duramente si vuota/ in questo freddo che ci coglie”.
Giungiamo così alla ripartizione “Controluce”, col repéchage del parametro affettivo nella vita in comune, con un bisogno di verità che non può sottacere i limiti soggettivi e oggettivi che frenano gli slanci. Non mancano nemmeno squarci di iperrealismo o, se si vuole, di minimalismo, dove al riscontro degli eventi stereotipicamente reiterati si accompagna la constatazione della reciproca solidarietà:

 

L’involucro di plastica
la mollica di pane sulla tovaglia
il tappo della bottiglia
la forchetta ingrassata.
 
Una copia conforme
la circostanza convenuta
e il nostro mutuo soccorso
di sempre.

 

Chi ha bollato con critica corrosiva gli abitudinari, i girella, gl’ignavi, i sepolcri imbiancati ed altri eroi negativi del bestiario umano, non può dissimulare le situazioni alienanti, l’imborghesimento dei comportamenti e dei pensieri, e con essi i fallimenti, le frustrazioni, il cappio dello stress quotidiano e le tarpanti inibizioni: “magari soltanto/ per dare alla sua vita/ almeno una ragione/ dell’ansia scontata nella fatica/ se lui potesse/ oserebbe tentare/ più aggressivo/ saprebbe che fare/ ma è lì fermo a durare/ lento ed uguale/ e tra i gesti compiuti/ solo il necessario a disamare” (p. 81).
Accentuando il registro antilirico in “Altrimenti non sarebbe possibile” e nell’altro componimento che dà il titolo alla sezione “La regola del gioco”, l’autore insiste su di un colloquiale antiretorico, a volte sentenzioso, tutto sommato colto, vero e proprio melange di parlato quotidiano, sottocodice politico (compreso il sinistrese), lessico giornalistico e codice letterario (specie nel riuso della rima) che si potrebbe definire linguaggio ironico-dianoetico. Qui più che mai, nella diffusa crisi dei valori profondamente sentita, di Palo assume il ruolo di poeta demistificatore - ma con una piega amara – delle manipolazioni esistenziali, dell’omologazione conformistica e di certe avvilenti relazioni interpersonali. Qui l’osservazione sardonica e l’andamento discorsivo e monocorde accentuato dai versi rimati si risolvono nel momento decisivo del guizzo finale, chiave di volta interpretativa di quella lenta morte interiore che è lo scotto del tragico gioco della vita:

 

Manipolare la vita a piacimento
Assecondare l’ìlare comportamento
di chi ha da sempre capito
i termini fluidi dell’andamento
e in omaggio alla più lucida coscienza
ridurre a sotto zero
la fatica sprecata nella sopravvivenza.
 
Applicare ad ogni valutazione
il marchio sublime della comprensione
o uniformare l’intenzione
a quella del più forte
lasciando alla propria sorte
il privilegio soltanto della decantazione.
E complici di scontate soluzioni
senza più il rischio di ulteriori dispersioni
vantarsi così di un gesto mancato
di un sogno frustrato
se in questo esistere e morire a poco a poco
ormai consiste tutta la nuova
ineffabile regola del gioco.
 
Il titolo “Dati”, attribuito alla successiva ripartizione, nella sua asettica e semplice efficacia, esprime la volontà di guardare con distacco alcuni lacerti della realtà individuale e sociale esaminandoli attraverso un filtro ironico. Ancora una volta l’ironia si presenta come l’arma razionale del sognatore attristito dall’effettualità delle cose, la difesa dell’idealista pertinace che non vuole gettare la spugna.
Con la sezione “La bella sorte”, che dà il nome all’intera silloge, di Palo si pone decisamente su quello che Maria Marcone nella nota introduttiva definisce “un lucido intelligente binario di autoironia un po’ malinconica”. Nella consapevolezza di dover sempre pagare di persona, l’irrisione porta tutto alla ribalta: scatti di ribellione, disincanto, nevrosi, trincee mentali, sconfitte ideologiche, elusioni, quietismo borghese e integrazione al sistema, con il gusto parodistico e dissacratorio dell’inconcludenza e dell’equilibrismo del politichese (presente soprattutto in “Per meglio dire” e “L’analisi”). E’ questa la beffa della “bella sorte”, la condizione dell’intellettuale costretto a scontrarsi lucidamente con disinganni di un’intera generazione e a prendere atto dei cedimenti e dei compromessi, portato storico dei più recenti eventi politici e sociali, ma anche eterni segni negativi della commedia umana:

 

L’abilità d’integrarsi
e la storia del buon viso
al cattivo gioco
le trame combinate
dopo la formulazione
le palpebre gonfie di sonno
e di carta stampata
e fino attraverso le ossa
il peso che si addice.

Ed organizzi la nozione
fermo ad ogni assalto
già dentro l’ironia
di questa bella sorte.

 

Dopo “Better dead than red”, che è una p articolare difesa della libertà ideologica, troviamo “Ultima”, un commosso ed estremo commiato del poeta al genitore, a prima vista “uomo senza qualità” (non di musiliana memoria), in realtà artigiano “semplice e pudico” e padre affettuoso.
Resta infine da parlare delle tre “appendici” (“Il paese è piccolo, la gente mormora”, “Dietro l’angolo” e “Il problema non si pone”, che se vogliamo hanno un precedente breve in “L’arte del dire”), inevitabilmente destinate fin dall’inizio a destare perplessità contrapposte a favorevoli apprezzamenti. Infatti, se a Giuliano Manacorda (come si legge in quarta di copertina) esse sembrano “scritte per sfogo e per scherzo”, a Giorgio Bàrberi squarotti “le ‘appendici’ piacciono molto” (cfr, “Singolare/Plurale, a. VII, n. 5 (44), 10-XI-1985, p. 7). Personalmente, anche se le filastrocche tecnicamente non sono sempre ineccepibili (quanto a Regia Parnassi), le trovo efficaci e assai godibili. Qui veramente la satira di Mimì di Palo procede a briglia sciolta, senza allusioni criptiche o residui intellettualistici o moralistici, e pur non raggiungendo gli esiti altrove toccati, si lascia leggere con grande diletto. Qui l’autore mette alla berlina e stigmatizza burlescamente tanto le mentalità grette e retrograde della provincia, quanto governanti, governati e intellettuali di un’Italia oligarchica e partitocratrica, corrotta e scombinata, e così facendo, in guise popolari e accattivanti, come direbbe Jean de Santeuil “castigat ridendo mores”.

“La bella sorte”, dunque, si segnala come opera da gustare e da ponderare, come nota diversa e pregnante nel panorama poetico degli anni ’80, come libro vario e stimolante, dove la vicenda individuale si allarga a documento di una generazione e di una società in crisi metamorfica.
 

Marco I. De Santis

 

*In “Singolare/Plurale”, n. 69, Trani settembre 1990 ; poi in”Periferia centrale – Percorsi della poesia italiana nella Puglia degli Anni ’80” di Marco I. de Santis”, Levante Editori, Bari, ottobre 1990.

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