Domenico di Palo

MARCO I. DE SANTIS*


   DOMENICO DI PALO, Estravaganti, Foggia, Bastogi, 2011

Scrittore di lungo corso, Domenico di Palo si è fatto conoscere non solo con l’antiromanzo Renato e i giacobini (Bari, Palomar, 2006), ma anche con la silloge lirica Foglie (Milano, Gastaldi, 1959) e con le raccolte prevalentemente satiriche La bella sorte e altri versi (Bari, La Vallisa, 1985), Sotto coperta (Foggia, Bastogi, 1997), Avanti ma… (ivi, 2001) e Double face (ivi, 2009).
Mentre l’autore scriveva le ultime sillogi, alcuni testi coevi ritenuti estranei ai progetti editoriali in allestimento sono stati esclusi dalla pubblicazione. Le poesie “extravagantes” tenute fuori dal “corpus” satirico antecedente sono radunate ora in una nuova plaquette significativamente intitolata Estravaganti, edita dalla Bastogi Editrice Italiana di Foggia nel 2011. Tralasciando le decretali pontificie supplementari di Giovanni XXII definite appunto Extravagantes, l’esempio anteriore più illustre in poesia è quello delle “rime estravaganti” del Petrarca non incluse da «quel dolce di Calliope labbro» nei Rerum vulgariun fragmenta del cosiddetto Canzoniere.
Sulla scia di tale aulico precedente, Domenico di Palo apre le sue Estravaganti con la sezione Prologo, poggiata su di un solo testo a carattere ludico: «È come il gioco dell’aritmetica / ventiquattro venticinque ventisei // E dal momento che si farnetica / fammi vedere un po’ che cosa sei» (“Gioco”). Sull’abbrivo di queste rime alternate, la raccolta prosegue con la sezione Epigrammi, calibrata su regressioni ad affettuosità infantili (“Senza fretta”), distrazioni ed equivoci (“Per caso”), ironici inviti alla concretezza (“Dovunque”) e scherzosi auguri genetliaci  (“Compleanno”), per culminare nella satira, nell’invettiva e nell’autoironia di “Voi” scagliata contro la fauna filistea di certi saccenti cinici e arroganti sottoacculturati, legati alla «greppia» dell’interesse: «[…] Voi che nello sfascio / di oggi e di ieri / il gomitolo del dolore / dipanate / mutandolo in disonore // Voi bocche di fogna // Voi ostili a chi sogna […] voi sempre voi / proprio voi // Contro di noi / poveri eroi / del senno di poi…».
Si passa quindi alla sezione Xenia, che si schiude con una dichiarazione di imperitura continuità: «Il tempo passa e passano le stelle / ma non passa più questa passione // che ormai si sente sotto pelle / come in una vecchia canzone» (“Passione”). È il preludio a una fidente consonanza ideale: «Con passo alato e sempre più leggero / si muove verso te il mio pensiero. // E verso te ormai non c’è distanza / che al mio pensiero tolga la speranza» (“Con passo alato”). Insomma, è la conferma di un affetto incondizionato che si fonda sulla capacità d’ascolto: «È bello sentirti parlare / come uccello che canta nel sole // Né mi stanco mai di ascoltare / tutte quante le tue belle parole» (“È bello”).
A questo punto sbaglierebbe grossolanamente chi pensasse che tale vena in apparenza facile sia frutto di mera semplicità stilistica, perché al contrario i testi della silloge Estravaganti sono il portato di una solida preparazione classica, come dovrebbe indiziare la denominazione sezionale degli Xenia (propriamente “doni all’ospite”), titolo già caro a Marziale e a Montale. Non per nulla l’autore è stato docente di italiano e latino nei licei e non a caso rinveniamo nella raccolta analizzata poesie come “Fuggo” e “Per questo”, che sono libere traduzioni dallo stesso Marziale. La prima recita: «Io fuggo se tu mi cerchi / e ti cerco se tu fuggi. // Questo mi succede… // E non voglio che tu mi voglia / e ti voglio se tu non vuoi». Si tratta dell’epigramma destinato a Didimo: «Insequeris, fugio; fugis, insequor; haec mihi mens est: / velle tuum nolo, Didyme, nolle volo» (Epigrammata, V, 83).
L’altra poesia è così articolata: «Sei facile conquista / e rocca inaccessibile / sei dolce come il miele / e amara come il fiele. // Per questo con te / io non posso vivere / per questo senza te / io mi sento morire». Il testo è l’elaborazione di un altro distico di Marziale: «Difficilis facilis, iucundus acerbus es idem: / nec tecum possum vivere nec sine te» (Epigrammata, XII, 46). Ma il rinvio delle citazioni esplicite e implicite non finisce qui, perché, come in un gioco di scatole cinesi, l’ultimo verso di Marziale ne richiama a sua volta uno quasi identico di Ovidio: «Nec sine te nec tecum vivere possum» (Amores, III, 11, 39).
Anche nella successiva sezione Epitalami c’è un altro richiamo colto. È la poesia “Felici”, che è così concepita: «Felici ancora di più / Quelli che una passione senza fine / Tiene congiunti / E che / Al di là delle miserie quotidiane / L’amore non abbandona / Né divide / Prima dell’ultimo giorno». È una versione della chiusa dell’ode a Lidia di Orazio: «Felices ter et amplius / quos inrupta tenet copula nec malis / divolsus querimoniis / suprema citius solvet amor die» (Carmina, I, 13, 17-20). Sulla scorta di tale dotto riscontro, tutti i precedenti componimenti della stessa sezione si possono interpretare come canti nuziali augurali, dai toni lievi, a tratti quasi fiabeschi, ma più spesso gioviali. Il riferimento è alle poesie “Buondì”, “Tanto”, “Non diffidate”, “Perché l’amore” e “L’amore – si dice –”.
Con la brevissima sezione In memoria si cambia registro e il tono diventa elegiaco: «Non sono trite fibre le memorie / nella curva dolorosa delle tue / rovine che in silenzio s’infranse / tra livide brume e che riaffiora // sulle rive dei più chiusi affanni . […] Così nel sangue per il tuo sorriso / c’è un caldo vivo che ora scioglie // anche l’abisso delle nostre paure / e già si fa più leggero il tempo / e si dilegua in noi l’ora che muore» (“Non sono trite fibre”). A questo sonetto fa da pendant un epicedio, in cui più che la perdita risalta la presenza memoriale dell’estinto: «E ora che tu sei / solo un nome e una pietra / ci resta un lungo inverno / e la notte. […] Eppure fiorito è il deserto / popolata la solitudine // se ancora  risuona / l’eco della tua voce // e la memoria di te / ancora ci dà luce» (“E ora che tu sei”).
Al prologo corrisponde strutturalmente un Epilogo sezionale, che è un’ìlare dichiarazione di resistenza ad oltranza, bilanciata tra lo sbigottimento problematico e la proclamata modestia di irrinunciabili tentativi personali, pur nella certezza di taluni ciclici ritorni: «Grazie ohibò / ma si fa quel che si può // e più di certo no / perché già lo so // che dopo il si / ritorna il do» (“Ohibò”).
In conclusione, con la raccolta Estravaganti, Domenico di Palo propone ai suoi lettori poesie senza retorica e senza patemi, che conoscono l’ammiccamento dei calchi letterari e i risvolti di una commossa e rattenuta elegia, ma prediligono i versanti di uno scanzonato divertissement e di una sapida freschezza anticonformista, con un sorriso mai crudelmente sarcastico, ma piuttosto lievemente amaro e giocosamente smagato.

                                                                                                                Marco Ignazio de Santis


* In “Misure critiche”, Salerno, dicembre 2011


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