Domenico di Palo

SILVANA FOLLIERO


Domenico di Palo, nel suo volume “La bella sorte” (La Vallisa, 1985), non lascia, in alcun modo, posto alle ambiguità, ciò che è da ripudiare va ripudiato, ciò che è da abbracciare va abbracciato. Non è che in lui non ci siano sfumature o mezze tinte, ma la coscienza del poeta si ribella ad ogni forma di compromissione, a quel gioco eterno degli scacchi che fa spesso perdente il vincitore e trionfatore colui che soccombe. E gli sa che molti non hanno il coraggio della scelta e restano per tutta la vita inchiodati ad uno stesso ruolo anche se non voluto o parzialmente ripudiato. L’essenza dell’ideologia è il premio che ognuno può aspettarsi dal caos e dalla competizione. Il formalismo, la povertà morale, la prudenza lo deprime e l’angoscia; impotenti e incoerenti i più sopravvivono morendo.

Un moralista Domenico di Palo? Non mi sembra

Il moralista reprime se stesso, la sofferenza, e di Palo ne ha molta di sofferenza, che ogni tanto esplode, per le cose ingiuste che vede, per l’impossibilità ad aggiustarle, per la rabbia che sente e non può sempre venir fuori, alla luce del sole. D’altronde non è neppure un pessimista perché il viso, le parole, le mani degli altri, la ragione dell’animo aiutano lo scrittore al discorso diretto, all’appropriazione del personale destino..

E se il cerchio non si chiude perfettamente non è per mancanza di elementi accettabili poiché egli avrà scommesso, nel corso degli anni, anche sul non scommettibile e, quindi, avrà puntato sul rischio.

L’analisi
con un prima e con dopo
al suo limite esatto
precisa e sicura
opportuna
e sbilanciata quel tanto
che basta
a riprendere il dialogo.

E’ l’uomo che si sente impegnato ideologicamente e per questo affronta l’analisi temporale e sociale; è il poeta che rimprovera se stesso perché sa di non poter dormire, perché dovrà verificare il prima e il dopo, il dialogo e il silenzio in una coagulazione di opportunità generali e di valori soggettivi.

Di Palo è un poeta introspettivo che restituisce al sociale la semanticità del vissuto. Il suo realismo è sostenuto da improvvisi tuffi nell’impensato: “Ci vogliono nervi tesi fino allo spasimo/ e un cuore di ferro/ per riproporsi ogni sera/…”

Un secolo di spie il nostro, di spie dell’inconscio e il labirinto è lì a due passi da ogni uomo. Di Palo, che è uomo e poeta, il labirinto interiore lo conosce bene, ma sa anche come aggirarlo e come violarlo.

Lo percorre, lo esamina, ne esce fuori tranquillo. E’ quello che si prova leggendo la sua “Bella sorte”.

La scrittura di Domenico di Palo - permeata di cose, fatti e di uomini, sempre in attesa e insoddisfatti, - non restituisce alla semanticità poetica la spirale descrittiva, il narcisistico passo del mondo, ma ne informa la sostanza in un crescendo di verità e di pietà anche nella rabbia e nella ribellione.

Di Palo sa quello che vuole. Nella dinamica storica egli trova la metamorfosi d’ogni gesto o voce pur rispettando le regole del gioco; nel travaglio quotidiano riesce a consumare, senza disperdere e maledire, tutto il consunto e il superfluo.

La parola del poeta riflette la percezione dell’evento e la ”ragnatela favolosa” dell’immediato, che i più vivono inconsapevoli di se stessi e della Storia.

“La bella sorte” non è l’intimità del poeta né le sue delusioni manifeste o le sue ferite nascoste, ma è davvero la Storia di un pezzo di mondo, di un lacerto temporale.

Il poeta, cosciente nella propria soggettività traumatizzata, assume su di sé l’incoscienza generalizzata degli uomini che non riescono ad oggettivare - approfondendo e scavando e, quindi, a rendere contemporanea ed eterna la vita – neppure il proprio dolore o le propria gioia né il pieno e il vuoto.

Lo scrittore soffre per tutti, sogna per tutti, costruisce per tutti. Il suo destino è davvero un invidiabile destino.
 

Silvana Folliero

 

*In “La Vallisa”, n. 15, Bari, dicembre 1986.

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