Domenico di Palo

SEBASTIANO MARTELLI


Questa nuova silloge di Domenico di Palo continua con coerenza la riflessione sul dentro e fuori della vita che si era dispiegata in La bella sorte (1985) e in Sotto coperta (1997). Il legame con la seconda raccolta è molto evidente sia per i temi e sia per le opzioni formali e strutturali, che muovono in più direzioni e utilizzano modelli diversi: dalla filastrocca - secondo il riuso da Gianni Rodari e da Alfonso Gatto – che apre la raccolta, quasi a far da proemio, all’epigramma e all’aforisma, dal sonetto alla canzone, alla ballata, attraverso la riscrittura, spesso parodia di auctores come Cavalcanti, Dante, Petrarca, Accetto, Foscolo, fino alla poesia novecentesca di Cardarelli e Scotellaro.

Questo uso di registri molteplici palesa un dettato poetico che si alimenta ad un flusso di riflessioni, stati d’animo, esperienze che si intrecciano ad una cultura letteraria non superficiale, che ha costantemente accompagnato l’autore in un continuo riscontro, poi invece offrendo un rifugio alla delusioni, alle mutazioni della realtà e al consumarsi dei giorni.

Il tono dominante di Sotto coperta nasce dal contrasto tra gli ideali laici, progressisti di una generazione che aveva creduto nel progetto di cambiamento e nell’uscita del Mezzogiorno dalla sua arretratezza, e la condizione di delusione, impotenza, resa, disinganno che caratterizza la svolta degli anni ottanta; da questo contrasto nasce la “nuova maschera didimea dell’intellettuale disingannato” che segna nel profondo la raccolta, come ha notato Grazia Distaso in un bel saggio dedicato a questa silloge. Dallo scacco della ragione e della speranza – secondo la Distaso – il rifugio nel privato, nella “vita solitaria”, nelle riflessioni interiori, la scelta del monologo interiore che però si intreccia con la struttura dialogica, mentre il flusso dei sentimenti approda ad un “grado zero, come rovesciato nella categoria dell’ironia, del dubbio, della satira”. Dunque un percorso che si muove tra pubblico e privato, un dentro e un fuori efficacemente reso da un polimorfo registro poetico.

Nella nuova raccolta si propone lo stesso percorso, spesso anche gli stessi temi oltre che le stesse opzioni formali, ma nel cono d’ombra di una totale deideologizzazione, demistificazione, di una definitiva resa, come emblematicamente segnala la lirica che dà il titolo alla raccolta, Avanti ma…, che contaminando un vecchio canto politico con una canzone di Battiato chiude la quartina: “Avanti ma/ per farla franca/ sul ponte sventola/ bandiera bianca”.

Solo la satira, l’ironia – spesso autoironia – possono traghettare nella scrittura poetica questa condizione evitando gli scogli del pathos, del linguaggio collettivo dominante o del sociologismo d’accatto, come quello punzecchiato in alcuni componimenti (“I grandi teorizzatori”, “Sociologia”) o del senso comune che diventa luogo comune (“Conversazione”) poiché privo di idee e di reale capacità di dialogo. Allora tanto vale rifugiarsi dentro la quotidianità della propria vita scandita dal frenare delle energie vitali, dall’accettazione di troppi giorni uguali (“Insonnia”).

I testi raccolti nella sezione II – che datano agli anni ottanta – segnalano ancora tracce di quel confronto-scontro con la realtà sociale e culturale che aveva trovato ampio dispiegamento in La bella sorte e in Sotto coperta: il degrado della vita civile e culturale, l’affermarsi prepotente dei nuovi modelli sociali, la comunicazione e il dialogo deprivati di contenuti umani e civili. Molto efficacemente questa sezione si chiude con la poesia “Decalogo”, in cui questi temi sono riproposti alla rinfusa, come collocati in un sacco da porre in soffitta, enumerati con espressioni frante, fermate sulla soglia di uno spazio simbolico di senso, a significare l’impossibilità e l’inutilità di dare corso alla loro proclamazione.Nei testi collocabili nell’ultima stagione, quella che segue a Sotto coperta, la dimensione del confronto-scontro, delle bipolarità dialettiche dentro-fuori è ormai alle spalle: è sceso il tramonto in cui il disinganno è del tutto elaborato, restano solo gli ultimi fuochi in un paesaggio accettato con rassegnazione. Il poeta scopre ora la lentezza, spostandosi agli angoli di questo paesaggio da dove poter gettare sguardi limitati e soprattutto dare corso a brevi introspezioni, illuminazioni in assenza; o a cunei satirici sulla pervasiva nostra civiltà mediatica e consumistica (“New generation”), che avvolge tutto in immagini e frammenti di discorsi come in un ossessivamente iterato spot pubblicitario.

Alla riscrittura, quasi sempre parodica, di testi classici e moderni della tradizione poetica italiana di Palo affida la funzione di una poesia degli interni domestici, dei pensieri solitari, degli affetti, delle pulsioni residue a fronte del consumarsi della vita – “non amo… la greve ombra della sera” – guardato alla maniera di Carver attraverso il disfarsi dei corpi, dei gesti e delle parole che pure sono universo essenziale del conforto egli affetti stabili e delle presenze familiari diventano parte ineliminabile di se stesso (“Poco gentile”).

Una poesia veicolata da uno sguardo satirico e autoironico che accumula slarghi su altri segmenti di questa quotidianità: il vano tentativo di percorrere strade non invase da macchine, rumori, frastuoni, parodiando la ricercata solitudine di Petrarca (“Solo e nervoso”); un habitat occupato da “zanzare”, difficile da accettare da parte di chi ha il “destino” di “vivere rimpiangendo le mosche”; o gli ultimi fuochi del desiderio che si sovrappongono e si confondono con la memoria di altri desideri vissuti (“Maledetto sia ‘l giorno”, “Null’altro so”) o, adottando soluzioni epigrammatiche e aforismi, brevi flash sul nuovo tempo politico che è dato di vivere nel nostro paese (“Di belle maniere”).

In “L’aria non è nuova” con efficacia satirica l’autore destruttura il tema scotellariano dell’”alba nuova”, quella sorta di ballata popolare, quella “marsigliese” del mondo contadino meridionale - come la definì Carlo Levi – che di Palo oggi riscrive per segnalare il mesto approdo di quel progetto di cambiamento. L’orizzonte si restringe sempre di più, “mentre passa la mia vita a sghembo”, il poeta è consapevole della impossibilità del dialogo, “ora canta per nessuno”, insieme con il tempo e con il corpo si consumano anche le parole: “Sempre ti chiedi/ se ti tocca soffrire/ e intanto non vedi/ che non hai altro da dire”. In questo paesaggio è possibile solo una discorsività frantumata, destrutturata ironicamente con un’alternanza di toni che va dall’amarezza al sarcasmo, al ripiegamento autoironico. Non solo non c’è più il “sogno di una cosa” – di cui rimangono tracce nei frammenti satirici su temi politici, concentrati nella sezione V e che non a caso risalgono ai primi anni Novanta, rientrano cioè nel climax di Sotto coperta - ma anche del desiderio non restano che fantasmi, che in dissolvenza si intersecano con le vaghe pulsioni del presente (“Il senso più non ho”).

Un io sempre più piegato verso la riduzione di se stesso e del mondo, “nostre luci avare”, cui coerentemente si adegua il linguaggio poetico attraverso una versificazione franta, essenzializzata, che rimuove ogni possibilità di messaggio e che alle assonanze e alle allusioni affida frammenti di discorso, di scavo analitico distante da ogni tentazione poematico-lirica; si realizza nell’autoironia, nel sarcasmo, nella sentenziosità del monologo. Ma questa desertificazione dello spazio vitale, “il senso più non ho della proprietà”, non accumula autocompiaciuto commiserarsi sui giorni del crepuscolo, ma sarcastici pronunciamenti ed interrogativi che quasi creano uno scarto positivo verso la vita: “La morte per pietanza/ l’angoscia per contorno/ che altro poi t’avanza/ per toglierti di torno?”. Avendo guardato ad occhi asciutti dentro e fuori di sé, lo scarto ironico e satirico è il solo che possa far rimbalzare la vita dal fondo e riportarla nello spazio-tempo di una quotidianità in cui continuare a pulsare tra volti, oggetti, sguardi conosciuti: “or respiro profondo/ e me ne torno nel mondo”, versi con cui si chiude la raccolta.

                                                                                                        Sebastiano Martelli



* Prefazione a “Avanti ma…”, Bastogi Foggia 2001.

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