Domenico di Palo

MARCO I. DE SANTIS


“Renato e i giacobini”, prima opera narrativa di Domenico di Palo, già noto come poeta ironico e sferzante, è un antiromanzo. Infatti, distruggendo la trama tradizionale almeno nelle sue forme più ovvie, giustappone una serie di lacerti esistenziali narrati in prima persona da un narratore omodiegetico, i quali non seguono un rigido ordine cronologico, ma sono montati ad arte in ripartizioni che inglobano reperti memoriali e inserti documentali e vanno verso una conclusione senza happy ending, senza lieto fine.
L’io narrante esordisce con l’annuncio della decisione di scrivere un romanzo, ricordando di averne distrutto da giovane uno di ben 900 cartelle. Più in là riferisce di essere già alle prese con la scrittura del nuovo romanzo; poi avanza qualche perplessità e ne registra l’interruzione; quindi dà in lettura le prime pagine del romanzo a un amico. Successivamente lo interrompe di nuovo; poi, su invito, scrive dei “ricordi di guerra” e verso la fine della narrazione rivela di aver terminato il romanzo e di averlo consegnato a un editore.  
In realtà tutto questo è il pretesto o la cornice per un disincantato e ironico ma a volte anche sottilmente accorato viavai memoriale che si avvale di frequenti analessi (flash-backs), di due inserti epistolari, di un racconto nel racconto e di fugaci accenni di metaromanzo.
La voce narrante è quella di Renato Covelli, un professore d’italiano e latino che vive in provincia, «troppo giovane per la Resistenza, troppo vecchio per il ‘68» (p. 50), ormai avviato al disimpegno e approdato a una vita di routine, che gli fa trascorrere gran parte del suo tempo davanti alla televisione o «a scandire le attese tra le faccende domestiche» (p. 9). Renato viene invitato dai pochi frequentatori che ancora apprezzano la sua indole di sognatore e di istrione a lasciare un segno della sua originalità. Non deve far altro che lanciarsi nell’impresa di scrivere un romanzo.
Il progetto intriga non solo alcuni vecchi amici, ma anche nuovi conoscenti e crea una notevole aspettativa intorno allo scrittore, che del resto al suo attivo ha una raccolta di poesie pubblicata alla fine degli anni Cinquanta del Novecento presso un piccolo editore di Milano. Sembra che essi aspettino il suo romanzo come una insolita occasione per uscire dalla stagnante palude quotidiana, tanto che anche sua moglie Cecilia, uscendo gradualmente dalla depressione e dalla videodipendenza, comincia a interessarsi ai suoi scritti, almeno a partire dai suoi “ricordi di guerra”.
Fin dalla prima pagina comunque si staglia soprattutto la figura di Rinaldo, un vecchio amico scappato da un Sud senza prospettive, da Trani, e sistematosi in Germania. Anche se è possibile perfino risalire al modello biografico ispiratore (Vincenzo Orlando, intellettuale tranese residente a Brema), l’autore nell’exergon sornionamente avverte i lettori che ogni riferimento ai personaggi del romanzo «è, ovviamente, occasionale» (p. 6) e quindi anche noi, irretiti nella finzione letteraria, siamo obbligati a credergli.
In effetti Rinaldo è il pungolo critico di Renato, è il suo alter ego. Così, attraverso un denso e altalenante dialogare con Rinaldo, emerge, per campioni cronologicamente mescolati, un cinquantennio di vita italiana, osservato prevalentemente dal Sud e dalla provincia barese.
Si tratta di un mezzo secolo offerto per saggi significativi, prendendo le mosse dal romanzo distrutto e dal crollo di un palazzo in via Canosa, a Barletta, dove nel settembre del 1959 perirono più di sessanta persone, dando l’avvio a un processo e alle cronache processuali tranesi dell’inviato di un quotidiano milanese, che finisce per intrecciare una relazione con una ragazza del posto e per svanire nel nulla dal quale era venuto, non senza aver scoperto «il profondo Sud, le sue atmosfere e i suoi colori, le lente processioni [..] i notabili democristiani bofonchianti e sempre tramanti […] la gioventù ricca cinica e sniffante del luogo [..] i balli d’estate sui terrazzi coi lampioncini multicolori e coi dischi di Nat King Cole e di Frank Sinatra, il mare azzurro e ancora pulito» (p. 15).  
Il primo gruppo di amici rievocato è quello di Rinaldo, Natalino, Giovanni, Alberto e Nicola, che fanno cerchio all’io narrante, omologhi ai vitelloni felliniani o, se si preferisce, ai basilischi wertmülleriani, amanti non solo delle peregrinazioni notturne, degli scherzi, delle bevute di birra o di vodka, di saltuarie puntatine ai bordelli, ma anche dei buoni libri, dell’arte, delle conversazioni appassionate, dei vaniloqui sugli scrittori alla moda, dei giri in automobile e delle pose ciniche: «Continuiamo a pisciare sul mondo, mio caro, e il mondo rifiorisce sotto il nostro piscio», risponde provocatoriamente una sera Renato a Rinaldo (p. 33).
Un altro gruppo di amici perisce nel ’60 in un tragico incidente stradale, al quale Renato scampa solo per caso, e altri compagni, colleghi di lavoro e parenti scompaiono via via più tardi, disseminando di assenze l’esistenza del narratore interno.    
Dopo l’intermezzo memoriale della inutile fuga a Roma del protagonista alle soglie della laurea in lettere nei tardi anni Cinquanta e dopo l’aggiunta di altre schegge esistenziali, si passa all’inserto documentale di due lettere del 1975. Una descrive il raduno di Licola nel Napoletano, che fu insieme concerto per la controcultura giovanile e meeting della sinistra extraparlamentare. L’altra è lo spaccato di un’assemblea di sezione del Partito di Unità Proletaria, che fotografa una fase di incertezze e di abbandoni in una città di provincia.
È il preambolo per un flash-back sulla prima esperienza politica degli amici Renato, Rinaldo, Natalino, Alberto, Giuseppe e Donato, ancora capaci di vivere con allegria «pure nell’urto quotidiano con la realtà» (p. 73). Essi sono chiamati “i giacobini” da un assistente universitario comunista che li fa iscrivere al partito, li sfrutta e li strumentalizza. L’appellativo nasce da I Giacobini, uno sceneggiato televisivo di Federico Zardi, derivante dal dramma omonimo dello stesso autore diretto da Strehler al Piccolo di Milano nella stagione 1956-57, dato in televisione nel 1962 e religiosamente seguito puntata dopo puntata dagli amici riuniti in casa di Rinaldo.
È il momento del “Circolo del cinema”, un’attività culturale sessantottina ante litteram, che incontra l’ostracismo feroce di certi preti e notabili di paese e deve chiudere necessariamente i battenti, preludendo alla diaspora del gruppo. Da pendant a questi anni fanno le incastonature di un cammeo dissacratorio di Alfredo Reichlin (pp. 82-83) e di un bel ritratto di Pier Paolo Pasolini, «agnello sacrificale» di uno squallido e reazionario dibattito nella Biblioteca comunale di Barletta (pp. 86-87).
Dopo qualche rapido fotogramma di un’aula liceale e dei primi anni Novanta, in un paese dove non «succede niente», tranne una nuova ondata di profughi albanesi a Bari e le esternazioni del presidente Cossiga, l’antiromanzo di Mimì di Palo prosegue nella seconda parte del libro con un’ekphrasis, un racconto nel racconto, che dipana e intreccia le “Storie di guerra” di una famiglia in fuga e di un’Italia martoriata dal Sud al Nord dagli eventi bellici del ’43, del ‘44 e del ’45.
Poi, nella terza e ultima parte, velocemente la diegesi mostra i segni repentini del cambiamento: come l’Italia è andata incontro a Tangentopoli e alla Seconda Repubblica, che «in verità già fa rimpiangere la prima» (p. 138), così il protagonista nell’estremo scorcio del Novecento, divenuto pensionato e deposto ogni residuo sdegno politico, è alle prese con un intervento chirurgico (che andrà a buon fine) e con un nuovo ciclo di chemioterapia. Le uniche novità sono strani incontri con ex alunni già piombati nel dimenticatoio. Poi, nient’altro. Ormai Rinaldo da tempo non torna più a Trani dalla Germania e gli altri amici non si fanno vivi da anni. Sono tutti cambiati: da “giacobini” sono diventati “girondini” e «qualcuno se n’è andato persino in… Vandea» (ivi).
Così, in una parabola dallo stile asciutto, sobrio e disincantato, ma non privo di passione etica e civile e di contenuta amarezza, Domenico di Palo ci fa rivivere il dissidio di una generazione passata dall’impegno alla disillusione, dalle utopie giovanili all’impatto con l’invecchiamento e la deludente prosaicità della realtà contemporanea, dove, nell’invincibile deriva affaristica e conformistica, i malesseri del Mezzogiorno si allargano a cancrena dell’Italia intera.

                                                                                                        Marco I. De Santis

                                                        

* In “Misure critiche”, Rivista trimestrale di letteratura e cultura varia, Nuova Serie, Anno IV, numero 1-2, 2005, La Fenice Casa Editrice, Salerno.

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