Domenico di Palo

MARCO I. DE SANTIS


Facile, ma non troppo. E’ quello che si può dire in estrema sintesi della quarta raccolta di poesie di Domenico di Palo, “Avanti ma… (altrerime)” pubblicata da Bastogi, con un’attenta e lusinghiera prefazione di Sebastiamo Martelli. Infatti, partendo dal testo che dà il nome alla silloge, appunto “Avanti ma…”, un’analisi appena un po’ più approfondita di una rapida lettura rivela almeno due o tre imprescindibili riferimenti avantestuali.
Leggiamo dunque la poesia eponima:

Avanti pure
facciam la mossa
sul ponte sventola
bandiera rossa.

Avanti tanto
nulla si perde
sul ponte sventola
bandiera verde.

Avanti ma
per farla franca
sul ponte sventola
bandiera bianca.

Il primo testo che viene in mente è, naturalmente, una canzone politica del tardo Ottocento di autore anonimo, la popolarissima “Bandiera rossa”: “Avanti popolo, alla riscossa,/ bandiera rossa, bandiera rossa;/ avanti popolo alla riscossa,/ bandiera rossa trionferà” con quel che segue. Il secondo testo con cui s’incrociano i versi della poesia di Mimì di Palo è l’ode risorgimentale “A Venezia”, scritta nel 1849 dal poeta e patriota Arnaldo Fucinato per la resa dell’eroica città lagunare stremata dal colera e dalla fame, come annunciato dal gondoliere di passaggio: “ - il morbo infuria,/ il pan ci manca,/ sul ponte sventola/ bandiera bianca!-“.
Questi dati potrebbero anche bastare, se non sapessimo dell’esistenza di “Bandiera bianca”, una canzone di successo, compresa nel long-playing intitolato “La voce del padrone” (1981), dovuta al cantautore sarà sufficiente solo uno stralcio: “Quante squallide figure che attraversano il paese/ com’è misera la vita negli abusi di potere.// Sul ponte sventola bandiera bianca”.
Tali presupposti dimostrano con evidenza che un componimento apparentemente semplice come “Avanti ma…”, risalente alla fine degli anni Novanta, in verità è l’esito di un’operazione raffinata, che, nell’ironica rassegna tricolore, al gusto postmoderno della contaminatio unisce la presa d’atto della smitizzazione di valori politici come quelli del socialismo e del comunismo, la volontà di denuncia dell’opportunistico abbandono a un procedere, se non proprio pieno di speranze, almeno colmo di attese tattiche, all’insegna del camaleontismo e magari dell’ecologismo, e la voglia di irrisione di quello che sembrerebbe un avanzamento, ma che in realtà è un moto di arretramento morale e di capitolazione ideologica.
Sulla stessa linea di ibridazione e parodizzazione si collocano testi come “L’aria non è nuova”, rifacimento della lirica “Sempre nuova è l’alba” di Rocco Scotellaro. Qui c’’è l’annuncio fiducioso di un imminente riscatto dei contadini del Sud. Nella poesia di Domenico di Palo invece, in un sarcastico ribaltamento, ai contadini meridionali si sostituiscono i professori sottopagati e armati di registro, alle teste mozze dei briganti subentrano i volti dei ragazzi bocciati, in una scuola tradizionalista e stantia dove il rinnovamento sembra precluso. Per un ex docente che ha lavorato a lungo nei licei si tratta, non sena amarezza, del momento di massima divaricazione tra prospettive di positivo mutamento e deludente riscontro della realtà scolastica e storica.
Altre parodie investono autori celebrati come Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Torquato Accetto, Ugo Foscolo e Vincenzo Cardarelli. Il sonetto “Voi che per li occhi mi passaste ‘l core” di Cavalcanti in di Palo diventa “Tu che coi lacci mi legasti giusto”; il sonetto cavalcantiano “Io temo che la mia disavventura” rimane pressoché inalterato nel titolo nella trasposizione del poeta tranese. Lo stilnovismo tragico di Cavalcanti nell’adattamento parodistico del Nostro diventa logorante rapporto corporeo che ingenera paura e terrore.
Con Dante di Palo si spinge molto più in là nella dissacrazione. Il sonetto dantesco “Tanto gentile e tanto onesta pare” diventa semplicemente “Poco gentile”. La desublimazione dell’etereo amore stilnovistico e della donna angelicata conosce anche incursioni verso il realistico, il “c carnevalesco”, il “basso” e il grottesco fino a includere la provocazione coprolalia.
La lode all’amata che si trova nel sonetto petrarchesco “Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, et l’anno” in “Maledetto sia ‘l giorno e ‘l mese e l’anno” diviene deprecazione dell’arrendevolezza maschile alle confidenze, lusinghe e pretese femminili. Da Petrarca riprende anche il sonetto “Solo et pensoso i più deserti campi”, che diventa “Solo e nervoso”, un irriverente capovolgimento della schiva solitudine petrarchesca nel vano e stressante divincolamento dell’inerme pedone dai pericoli e dai rumori delle strade invase da automobili e motociclette.
Di Torquato Accetto, più noto per il trattatello politico-morale “Della dissimulazione onesta” che per i versi, di Palo, con un’operazione anche più raffinata delle precedenti, riprende, in funzione ironicamente misogina, solo alcuni segmenti delle “Rime” col sonetto “Null’altro so che più non mi consumi” (con parziali corrispondenze di rima col sonetto di Accetto “E pur l’alta bellezza, e ‘l duro sogno”).
Il celebre sonetto foscoliano “Alla sera” offre il destro per imbastire un gustoso inno “Alla birra”. Invece l’epigramma di Foscolo contro Vincenzo Monti traduttore di terza mano dell’Iliade (“Questi è Monti, poeta e cavaliero,/ gran traduttor de’ traduttor d’Omero”) serve di base per il ritratto “Di belle maniere”, una satira politica contro il neoliberismo disinvolto e specioso di Berlusconi: “Questo è il berlusca/ imprenditore/ e cavaliere/ gran corruttore/ ma di belle maniere”.
Infine “Zanzare” è la parodia dei “Gabbiani” cardarelliano, simbolo di un’esistenza burrascosa e inquieta, che in di Palo diventa vita “a rischio” e senza pace per l’arrivo serale dei fastidiosi insetti.
Tale deliricizzazione, tale dissacrazione e tale abbassamento tonale non sono soltanto il frutto di un mero divertissement, ma soprattutto un riflesso del totale disincanto dell’intellettuale progressista giunto a un punto di non ritorno per la caduta delle ideologie e delle utopie, per la presenza di un clima politico e sociale soffocato dal qualunquismo e dal consumismo e perciò privo di sbocchi evidenti.
Di questa involuzione della società italiana c’è traccia già nella sezione II di Avanti ma…, che raccoglie componimenti scritti negli anni Ottanta. Con versi brevi e scarni, si va dall’irrisione di certe mistificanti analisi chiarificatrici (“I grandi teorizzatori”) alla condanna dell’improvvisazione sociologica (“Sociologia”), dall’osservazione di momenti di crisi nel rapporto uomo-donna (“L’angoscia”) al ripudio delle banalità discorsive (“Conversazione”).
Sempre di più la vita privata mostra le sue esagerazioni, le sue ferite e le sue solitudini, che all’ombra del flusso mass-mediale coinvolgono anche singles di sesso femminile (“In un senso o nell’altro”, “Vita privata”, “Insonnia !”, “Insonnia 2”). Non resta che stilare un prospetto, che non potendo più contare per il calo assiologico sull’efficace perentorietà degli antichi deca loghi, si rivela tarpato dalla provvisorietà e dall’incompletezza e rassegnato al possibilismo, al compromesso e alla perdita di auten eticità, socialità e libertà (“Decalogo”).
La diagnosi impietosa della realtà sociale e storica, nella quale l’autore autoironicamente non risparmia nemmeno se stesso, prosegue con le poesie della sezione V, che raduna testi dei primi anni Novanta e fa il punto su alcuni momenti della vita politica italiana. Nel marzo del 1990 si tiene a Bologna il XIX Congresso del PCI, in cui si discutono e votano tre mozioni: Una di Occhetto per la costruzione di un nuovo partito riformatore e progressista (67%); una di Ingrao e Natta, contraria all’abbandono della tradizione, del simbolo e del nome comunista (30%); e una di Cossutta, completamente avversa alla linea occhettiana (3%). In aprile si registrano due omicidi camorristici. In maggio e settembre la mafia uccide un funzionario regionale e un giudice. Il 10 ottobre Occhetto presenta il nome del futuro partito (PDS) e il simbolo dei postcomunisti (una quercia col vecchio emblema alla base). Per queste e altre evenienze le sferzate satiriche sono brevi e rapide come sventagliate di mitra: “Piccì piccini picciotti/ tra cerchi e tra botti/ taralli e biscotti/ ecco i nuovi strambotti” (“Strambotti”).
Poi fra il gennaio e il febbraio del 1991, al XX Congresso del PCI celebrato a Rimini, con l’abbandono delle pregiudiziali marxiste da parte di Occhetto, si consuma la spaccatura fra gli eredi di Nilde Jotti: da una parte il Partito Democratico della Sinistra e dall’altra il movimento di Rifondazione Comunista. Tutto ciò avviene durante la sesta presidenza del Consiglio di Andreotti, vecchia volpe democristiana. Ecco la scudisciata del poeta: “Fra dibattiti e botti/ si sono già rotti/ i piccini di Jotti.// E i giorni e le notti/ bevendo decotti/ se la ride Andreotti” (“Decotti”).
Dietro le questioni di lana caprina (“La cosa 1”, “La cosa 2”) si profilano l’abbandono della realpolitik e il dileguarsi dell’utopia, cui corrispondono solo inutili vocalizzi politici (“Tale e quale”). Ad approfittare della crisi, del tracollo o della trasformazione dei vecchi partiti è ora una nuova compagine politica, Forza Italia, fondato e finanziata nel 1993 da Silvio Berlusconi, che, coalizzandosi con Alleanza Nazionale e Lega Nord, la condurrà alla vittoria nelle elezioni politiche del marzo 1994. All’uomo politico e d’affari milanese l’autore ha dedicato il già ricordato cammeo “Di belle maniere”.
Alternando, come nelle precedenti raccolte, la dimensione privata alla dimensione pubblica, nel rapporto di coppia di Palo ripiega per un momento nel pudore del silenzio, affidandosi al favore dell’atmosfera, all’urgenza della necessità o al semplice e lieve contatto fisico, rimandando al futuro le parole da dire (“Te lo dirò”). Poi, dopo la filza delle parodie amorose, trapassa ironicamente e autoironicamente al tema del disamore e del distacco (“Il senso più non ho della proprietà”, “Coraggio resisti”, “Fu allora”).
Assieme ad altri validi autori, di Palo conferma che l’ironia non soltanto è lo stilo acuminato dell’aggressività della ragione e della critica urbana, ma anche lo scudo della difesa psicologica e dell’evasione da situazioni insostenibili: “Questi versi a bella posta/ per uscire dall’inferno” (A bella posta”). Perciò alla poesia lirica preferisce i versi satirici (“Dici”) e antifrastici: Difatti essi soli consentono di ridere delle prestazioni maldestre provocate dall’alcol e dalla precipitazione (“Madonna che fretta”), di sorridere delle difficoltà di comunicazione (“Incomunicabilità”) e di compiacersi sornionamente delle occasioni gratificanti offerte dall’erotismo (“Quando ti giri”)
Con “New generation”, che si segnala per il calzante intreccio di italiano e inglese, lo sguardo torna nuovamente sul milieu sociale contemporaneo, sulle nuove generazioni plagiate - anche linguisticamente - dalla persuasione occulta che impone scelte sempre più pesantemente consumistiche nel “villaggio globale” dominato dai mass-media. Lo scotto più pesante che una società irriflessiva e stordita deve pagare, come ribadito dalla poesia “Avanti ma…”, è la perdita di riferimenti ideali sicuri che possano fare da guida. Così mentre vi sono cittadini che in politica si schierano da una parte o dall’altra, non mancano gl’indifferenti, i furbi e quanti intrecciano legami con entrambi i “poli”, perpetuando l’avvilente sudditanza di un “popolo bue” (“Bue”).
Poste tali condizioni, ancora una volta il poeta passa dall’osservazione all’introspezione, per domandarsi se dal susseguirsi di giorni nutriti di morte e d’angoscia avanzi poi qualcosa per l’eclissi del soggetto (“T’avanza”). Del resto è tanta l’assuefazione alla possibilità di soffrire, che tale idea diventa un circolo vizioso che comprime i pensieri, una mania che riduce il parlare a un argomento fisso (“Sempre ti chiedi”).
Dopo altri guizzi e altre schegge, l’autore sciorina una poesia nuziale e amicale sul diapason di un’anafora replicata fino al penultimo verso (“24 versi per le nozze di un amico”). Poi, oscillando fra timore e temerarietà, si accorge che, in fon do, alla resa dei conti il poeta viene a trovarsi spiazzato, senza interlocutori: “Se la paura fa novanta/ e il coraggio duemilauno// il poeta che ora canta/ ora canta per nessuno” (“Novanta”). Non rimane allora che togliere il disturbo e tornare a immergersi nella vita, nel bene e nel male: “Ti sono obbligato/ per il disturbo arrecato// Or respiro profondo/ e me ne torno nel mondo (“Congedo”).
Riprendendo il discorso iniziato a partire da La bella sorte e altri versi (1985) e continuato con Sotto coperta (1997), Domenico di Palo con Avanti ma… prosegue efficacemente il suo racconto antifrastico e antiretorico sulla vita pubblica e privata dell’Italia di fine Novecento, privilegiando ironia e metaletteratura parodia, ma senza sacrificare il fondo emotivo e pulsionale in cui covano tutto il suo amore esistenziale e tutta la sua passione etica e politica, che danno una viva luce agli im-pietosi squarci minimalistici e ai taglienti frizzi satirici.

                                                                                                        Marco I. De Santis



* In “Misure critiche” quadrimestrale di letteratura ed altro, nuova serie. Anno I, n . 1, 2002.


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