Domenico di Palo

JOLE DE PINTO MINERVINI


A me pare, dalle prime sezioni alle ultime, che il poeta si penta del sogno d’amore, politico o esistenziale che sia, e a tal proposito è emblematico quel “Ho cercato di coricarmi senza sogni” (pag. 15) o l’altro “bracconiere di sogni” (pag. 12), quale attentato ad una orgogliosa virilità, così come rifugge dal lirismo quale debolezza retorica da rintanare in pieghe nascoste. Ma sapori lirici gorgogliano dalle sorgenti sotterranee della sua anima di sognatore impenitente e improntano ugualmente i suoi versi: a profusione nelle prime giovanili compositori, più radi nelle altre. Ed ecco: “Impallidire l’assurdo delirio”, “Una notte… faceva risacca sui cocci…”, “Ci poggiammo al giorno” (Capodanno 61), dove è in gioco il passaggio dal passato al presente in un’oscillazione nostalgica e già ironica al contempo, tra la memoria e l’immediatezza della visione del “gatto di velluto”; quindi “Le fiamme che in dialogo / frantumavano una sera…”, “Orme dei mie rimpianti” (Bivacco), dove alla notte demanda il sogno e al giorno la realtà virilmente accettata, e poi “T u hai colmato il tempo (efficacissima l’icasticità rappresentativa del verbo usato), e “il tempo scorre insonne/ al tuo guinzaglio”, un’immagine fresca e spiritosa nella sua malinconia, “Fila di gridi metallici” dove l’effetto per la causa, in una metonimia a rovescio, è resa molto poetica. Persistendo nella scoperta di momenti lirici, l’essenzialità dei versi rifrange l’intensità della figurazione “alata” della morte a pag. 16 e in “Sulla tua bocca” la similitudine naturalistica connota il biancore e la luminosità naturalistica del sorriso della donna amata mentre quel verso finale, lasciato sena un apparente nesso concettuale e sintattico, è come sospeso in un cronotopo all’infinito e slarga sensazioni sottese. Lirismo fuso al realismo veritiero in “Agli amici”, “Per infilzare i nostri sogni” (allo spiedo della verifica) “e vederli consumati fino al fondo” (verso di un accoramento quasi masochistico nel suo disincanto), “Raccogliere le pietre” (gettate dalle incomprensioni e frustrazioni) o a pag. 23 dove la poeticità di quel “paesaggio d’argilla” protrae come un’eco la dolcezza del linguaggio “consumato nella tua dolcezza”, “Ma il sole basso ti rifece contento”, mentre dilata nella spazialità delle nostre gravine meridionali aprendo “fosse” nella fantasia di chi legge. Ed ecco ancora, annidati dietro lo schermo ovattato dal pudore di un uomo più maturo, abbandoni al sogno “quando porteremo i nostri passi in faccia al sole” (della verità più cruda, della chiarezza più luminosa) in una liricità diffusa: “e la memoria farsi di ombre/ e l’amore inghiottito/ in una folla di lacrime/ e di sangue sempre fresco” dove l’evanescenza della memoria si colma della corposità dei morti (Strage); e poi “e la tua voce/ era lì a segnare/ il tonfo delle lacerazioni” in cui la cadenza della voce penetra la sequenza delle parole a significare il rumore; “eri un fiore di vetro” (pag. 43) (nota coloristica s’un cromatismo ironico), “nel fumo grigiastro/ che c’impasta la bocca” (In merito) (dove il sarcasmo è stemperato in una sorta di euritmia astratta dei versi) o “e queste nostre mani/ che si cercano nel buio” (in cui la ricerca è indistruttibile sogno di un’umanità dolorante che crede nella parola, ma è costretta ad arroccarsi in “silenzi enormi”, e il peso della scelta è tutto nell’aggettivo). Finché a rompere la grata di ritegno pudico ecco la confessione esplicitata “a ripagarti di tutti i sogni che hai fatto” (pag. 39) che ancora si apre a squarci lirici “Il sole ristagna nel tuo cuore/ e cresce la muffa/ sulla tua… saggezza” (Buon senso) o al gioco sottile della mistificazione di un’attrazione in un rimbalzo di profferta e di diniego, tanto più poetico quanto più vago nei punti di sospensione (La ragazza del treno).

E il lirismo sognante ricompare a pag. 68 “Ti reggi sotto una frana/ di sogni di pietra” o è evocato con forza dal verbo nel verso “e la memoria duramente si vuota” o esplode gloriosamente in tutta la stupenda poesia “L’anomalia di quando” dove la vaghezza del significato si identifica nella indeterminazione espressiva e il contrappunto di “troppo innocenti o troppo abbarbicati” s fuma nel lievito dell’anima trasposto naturalisticamente nel “cielo” al verso finale. Quindi dalla sezione “La regola del gioco”

in poi, quella vena d’ironia che appena traluceva precedentemente a affiorava già in “Copia conforme” (dove l’assenza del verbo sembra intagliare un elenco amorfo che invece si scioglie nella musicalità di assonanze “tovaglia-bottiglia”) si dispiega copiosamente, amareggiandosi nel sarcasmo graffiante del “sogno frustrato” (pag. 85) o “dell’inutilità e imbecillità” (pag 92) della letterarietà un una società distratta e interessata nel suo materialismo tra i gangli di una politica orfana di utopie, molle nella storia. La poesia “La regola del gioco” è emblematica della evoluzione tematica e linguistica perseguita. Innanzi tutto appare per la prima volta la rima (“piacimento-comportamento…”) che poi ritornerà in successivi componimenti e poi una Weltanshaung di rassegnato pessimismo o il mordace nichilismo senza certezze che si condensa nel “marchio sublime della comprensione” a “ridurre sotto zero/ la fatica sprecata nella sopravvivenza”.

E’ saggezza non dei “benpensanti” (pag. 34) ma di una maturità delusa nella sua “morale civile” (pag. 71) “l’ultima certezza” (o vecchiezza?) “nel vanto/ della pazienza acquisita” (pag. 76), altre sfaccettature “del gusto etico della vita” (pag. 67) senza per questo ricorrere alla “fuga a portata di mano” (pag. 62) che più smorzerebbe il retaggio di vivere, oltre che quello di parlare senza “assurde reticenze bizantine” (pag. 75).

Emergono sì in alcuni versi la stanchezza e il desiderio di “star solo” che non è “viltà” né tanto meno “rinuncia” (pag. 51), ma economia di sofferenza nella consapevolezza pacata di essere “diversi” (pag. 61).

Ancora a ritroso della “regola del gioco” traspare la giovinezza del cuore e degli ideali nei versi “di quelli che son pronti a rinnegare/ per sopravvivere morendo” quando invece a pag. 85 farà corrispondere l’esistere al “morire a poco a poco” eticamente e non fisiologicamente come già Eraclito e Petrarca. Non si tratta di avere “la nuca diritta” (pag. 33) di chi si spezza ma non si piega (e a questo proposito mi piace rilevare ne “La marcia della pace” le note paesistiche “tra le pozzanghere nere/ nei vicoli cupi/ sul lucido asfalto” della stessa lividura della protesta, mentre è apertura all’innocenza lo sguardo ai “ragazzini con la faccia livida/ e le mani rosse di geloni”, lo stesso sguardo di speranza di pag. 22 (“il chiasso dei bambini per la strada”), né tanto meno di essere “eroi del nostro tempo” (pag. 55) o di “gridare” la “voglia di seppellire il male” (pag. 26), ma piuttosto di evitare “la mano di biacca” (pag. 24) per poter “ritrovarci quelli che siamo/ e con le parole che hanno il senso che vogliamo”, per un’autenticità almeno umana, se non civile, politica, storica, nella dignità e l’orgoglio di “poter disporre di se stesso” (pag. 94), per “appartenersi” (pag. 95), guardando e non vedendo (“vedi e non vedi” pag. 112) in cui si appuntano gli strali velenosi di sarcasmo, dello “status conquistato” e di prima delle vacanze”, Tuttavia nelle ultime poesie non si ammaina definitivamente il sogno che si configura come desiderio di palingenesi politica riscattando almeno l’Umanesimo nel “riprendere il dialogo” (pag. 109) senza però “eludere” (pag. 110): è nocciolo dell’ironia contro l’oscurità programmata, “canovaccio-adeguato” (pag. 111) del discorso politico e contro la mancanza di chiarezza per non prendere responsabilmente decisioni; ironia che si fa spietata in “Better Dead Than Red” contro ogni “moltiplicazione dell’amen” per attingere la chimerica “libertà totale”.

Ma altre nuove connotazioni contrassegnano l’ultima produzione e investono soprattutto lo stile, la sintassi formale, la stessa struttura dei versi in obbedienza alle leggi della semiotica oltre che della semantica, e preferisce più spesso la soggettività della seconda e terza persona: si veda “Altrimenti non sarebbe possibile” costellata di immagini al limite del reale poetico (“cavità serale”, “sottotraccia”) o “Autobiografia” dove nella sequenza delle terzine si legge il sorriso rapido dell’arguzia, o i distici di “Brahms” con l’ironica immagine del fuoco (“il buio bruciato dal video”) o le strofe-sestine di “La componente” e l’identica simmetria di strofe anche se da cinque versi di “Letteratura” o la strutturazione originale di “Saluto” dove le parole si sciolgono quasi singole in ogni verso. E ancora distici che si susseguono armonicamente in “L’impegno” di cui l’ultimo è così sardonico da risultare esilarante, e in “Abitudine”, alternati alle quartine di “Evento” e alle terzine de “La buona dieta” in cui la satira contro i costumi imperanti si serve di lessico che cade come sasso aguzzo, mentre le rime in “ale” o “ile”, effetti di una modulazione immediata, nella ripresa finale accrescono la cadenza del ritmo.

Non mancano a bella posta “luoghi comuni” disseminati un po’ dovunque a ironizzare su un certo gergo corrente, politico, burocratico, o manageriale che sia, ad iniziare da “le valorizzazioni formali” e altri di “Per meglio dire” al “comporre la vertenza” e altri di “Assimilato, comunque, convenuto”, per finire all’arguta “unicità e intensità/ della proposizione” e altri di “Better Dead Than Red”. E proprio dall’ansia di una ricerca stilistica più attuale e moderna scaturisce la struttura figurativa alla Huidobro di alcune delle ultime poesie: si legga ad esempio a pag. 106, dove la circolarità dell’”occhio” è resa da una figurazione di versi altrettanto rotonda e il surrealismo onirico concettuale, se ha un andamento piramidale nell’alto si restringe e ripiega al basso ) a comunicare nicianamente l’eterno ritorno del sempre uguale o la ciclicità vichiana dei corsi e ricorsi storici, mentre il disinganno affonda con “la luna calante entro il fosso”. E poesia visiva si ritrova a pag. 108, 109, 110, 111 dove i versi nuotano spaziali nel bianco della pagina.

A conclusione della silloge ecco la poesia più intimista di “Mio padre” in cui pure non si rinnega una sorta di innovazione grafica (l’incisività delle maiuscole per evidenza concettuale) e l’appendice I, II, III dove più che a rime tradizionali si vuole indulgere a parallelismi sonori, per un coinvolgimento fonico del lettore, intessuti di ironia ancor più vaga e letteraria nella elementarità delle anafore di luoghi comuni come provocatori concettualmente e stilisticamente, per una gustosa vis satirica irruente e ideale alla Prevert.

Jole De Pinto Minervini


*In “Misure critiche”, Anno XVIII - n. 68-69 - Napoli, luglio/dicembre 1988.

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