Domenico di Palo

GRAZIA DISTASO


Leggendo il nuovo libro di poesia di Domenico di Palo (Sotto coperta. Versi 1985-1996, Foggia, Bastogi, 1997), che segue la fortunata silloge dell’85 La bella sorte e altri versi, ci si rende subito conto del processo di disincanto nei confronti dell’intenso e propulsivo fervore della vita pubblica e associata degli anni Settanta, gli anni dell’impegno e dell’”analisi del sociale/ e del capitale/ del ceto medio/ della città e della campagna”, come recitano i versi della poesia con cui si apre la prima sezione della raccolta; poesia intitolata appunto Anni settanta, in cui la parodia che gioca sul costante riferimento al linguaggio politico dell’epoca, anziché tradursi in un vuoto esercizio retorico, è segno di una vibrante e dolorosa constatazione d’impotenza, di una diversa consapevolezza del reale, maturata nel cruciale decennio 1985-1996 in cui sono nati i componimenti di questa raccolta, mai datati singolarmente ma senz’altro appartenenti a una comune atmosfera. Nel secondo dei componimenti di questa prima sezione, intitolato Le 9 beatitudini, di Palo fa ricorso a un procedimento di “riscrittura” a lui particolarmente caro; sicché il linguaggio evangelico del Discorso della Montagna, che dall’umiltà trae motivo di sublimazione dello spirito, da ciò che appare negativo motivo invece di affermazione di una autenticità positiva della coscienza, che si esprime attraverso il rovesciamento delle categorie consuete e convenzionali, qui viene applicato al mondo sociale contemporaneo dove la norma è l’indifferenza – la “divina Indifferenza”, novella Musa della cultura e dell’etica moderne -, dove al contrario, beato nella sua unicità può definirsi colui che nello sfacelo e nella crisi del tempo presente ancora sembra riuscire a conservare le antiche certezze, a mantenersi intatto lo slancio della passione, la coerenza e la speranza:

1. Beato te che ritieni di capire fino in fondo
la crisi che incombe su questo vecchio mondo

2. beato te che persuaso dei tuoi sentimenti
non sai prestare fede a tanti indifferenti

3. beato te che nella pace della tua coerenza
non sai cosa sia l’angoscia dell’impotenza

4. beato te che nello slancio della tua passione
non conosci l’incertezza ch’è in ogni dilazione…

Il poeta disegna in questo componi mento, che è un dialogo con un te richiamato dall’incipit di ogni beatitudine (beato te), due modelli antitetici che appartengono poi alla sua stessa coscienza franta di intellettuale post moderno, senza possibilità di conciliazione e di integrazione: quello, nostalgicamente vagheggiato ma ormai impossibile - niente più che una maschera guardata da lontano attraverso il filtro di una pur persistente e mai perduta coscienza etico-civile - , dell’intellettuale illuministicamente fiducioso nell’umana intelligenza e nell’affermazione di un ideale di più alta razionalità, e quello – che è la sua nuova maschera didimea – dell’ intellettuale disingannato, per il quale quegli ideali si sono tradotti in angoscia dell’impotenza e in impossibilità di azione, insomma in “virtù solitaria”.
Attraverso queste sue poesie di Palo ci invita su un palcoscenico che è quello della riflessione interiore, il percorso epicizzante della presenza del soggetto, dell’autore, che riflette sul mondo e su se stesso, in un continuum di analisi che trovano rispondenza in una sorta di monologo interiore, in un gioco di voci e di maschere che si intrecciano nella struttura dialogica di questa lirica, nella sua apertura polifonica alle voci più diverse, mai dogmaticamente cristallizzate nella fissità di un unico punto di vista, ma lasciate alla loro libera espansione che emerge da lontano, dal profondo della “sparuta/coscienza”, per usare un’espressione del poeta, come interrogativo che sempre si riproduce e ritorna nella inaridita sospensione del giudizio: “Gettarsi nella mischia?/ decidersi una buona volta? (Programma); “D’accordo, non perdere tempo/ fare della vita…/ Ma la certezza perduta?/ e la nozione acquisita? Di conseguenza lui s’inaridisce/ nella somma di un niente dopo l’altro” (Di conseguenza).
Dalla perdita di una comune speranza, dalla sconfitta della ragione, anziché leopardianamente dal suo instaurarsi, nasce modernamente questa poesia di Domenico di Palo, voce poetica peculiare, espressione di uno smarrimento che non è solo individuale quanto generazionale, di un atteggiamento che più che di rinuncia è di elusione della realtà, di allentamento della tensione e di raccolta nella propria interiorità, sotto coperta, appunto, secondo il titolo di un componimento della sezione VI da cui è ripreso emblematicamente il titolo dell’intera raccolta: “Non stare più all’erta/ fammi dormire/ sotto coperta/ è più dolce soffrire” (un ripiegamento, dunque, che non annulla la sofferenza, che non si traduce in inerzia dell’anima, ma solo in una più dolce sofferenza).
E’ una poesia che si nutre di riflessione, che nasce in realtà da un eccesso del sentimento, sentimento della vita nella sua pienezza non solo propriamente sentimentale ma autenticamente articolata nella molteplicità dei riferimenti etico-sociali; un eccesso però ridotto a grado zero, come rovesciato nella c categoria dell’ironia, del dubbio, della satira stessa, che è satira di costume e satura dei nuovi modelli che hanno preso il posto dei vagheggiati valori, delle antiche e cadute certezze. Ed ecco affermarsi in tale prospettiva l’enorme valore del riso come forza dirompente ed esorcizzante nei confronti del reale, come strumento terribile nella sua potenza: inevitabile, allora, il richiamo a Leopardi, e di Palo lo fa nella sezione VI, in un componimento, Più forte, che precede il programmatico Sotto coperta assumendo un esemplare valore di indicazione di poetica: “Terribile ed awful/ scrisse il poeta/ è la potenza del riso”. Il poeta è difatti Giacomo Leopardi e il riferimento-riscrittura è a un passo dello Zibaldone (4391), opera in cui più volte viene evidenziato il valore del riso che3 nasce da una condizione dolorosa e non appagata dell’esistenza, dalla contraddizione fra soggetto e realtà circostante: “Terribile ed awful/ scrisse il poeta/ è la potenza del riso:/ Tu l’hai condiviso/ da uomo più saggio/ che messosi a dieta/ ha pure il coraggio/ di dirlo più forte/ adesso e nell’ora/ della nostra morte”.
Pervasa di riso ma anche di malinconia, rafforzata da un realismo di marca rabelesiana non dimentica degli antichi fescennini, che non elude ma ricerca la dimensione del corpo, gli aspetti più fisici e anche grotteschi, connessi proprio alla corporeità materiale dell’esistenza, la satira di Domenico di Palo è tuttavia continuamente allusiva a una dimensione “altra”, quella appunto degli ideali morali laici che ci si proponeva di realizzare nel percorso di una integrazione fra gli uomini, per il raggiungimento di una autentica sodalitas capace di dare senso e valore all’esistere. Ma il desiderio irrisolto può assumere anche, sia pure per un attimo, la forma dell’utopia, della terra sottratta al corso della storia, con l’immagine di quel leggendario paese dove l’uomo può trovare tutti i beni della terra che è il paese della cuccagna, di cui è fornita nella sovraccoperta del libro la splendida raffigurazione opera di Pieter Bruegel: Nel paese della cuccagna, campo privilegiato dell’immaginario popolare sin dal Trecento, tutto è sbalorditivo e iperbolico, tutto esprime il desiderio di un mondo migliore, di un’esistenza umana quale si vorrebbe che fosse, purgata dal dolore e dal bisogno. E forse non è un caso che di Palo abbia sentito l’esigenza di ricorrere a questa raffigurazione, che è come il simbolo stesso della sua poesia antiretorica ed essenziale, che postula una visione rigorosamente umana, in linea con la tradizione laica illuministica, dell’esistenza e degli affetti, aprendosi a una vasta e suggestiva mescolanza di toni – secondo l’etimologia stessa di satira da lanx satura, il piatto che contenendo una varietà di cibi allude alla mescolanza di forme e di stili diversi: dal risentito giudizio morale sui tempi alla sottile ironia e al divertissement verbale, dal cupo pessimismo alle aperture leggere su certi aspetti appena accennati del reale, agli slanci di passione che pur sopravvivono dietro il disincanto.
La divisione del libro in undici sezioni risponde ad un preciso criterio di ordine interno, a un’organizzazione che ricerca nel discontinuo una raccolta continuità tematica e stilistica nel costante richiamo a quella fondamentale unità di tono, ironico e antiretorico, leggero eppure tanto allusivamente denso. La prima e la seconda parte compendiano i motivi di una sottile e insieme vigorosa irrisione di alcuni fra i principali aspetti della vita sociale e politica del nostro tempo, ma anche il luogo, secondo una concertata visione che è essenzialmente incrocio di rapporti temporali-spaziali all’interno del percorso artistico, anzi come possibili suggeritori dello stesso nella concretezza di un’ispirazione affondata nel reale e priva di astrazioni. Ecco allora componimenti che in un certo senso danno i brividi, mostrano ciò che abbiamo saputo fare della nostra vita associata (per es. Omertà: “In questo braciere di sole/ l’erba appassisce/ agli argini di un fosso/ l’ultima traccia/ si perde nella polvere/ E in tanto silenzio/ anche la voce/ si affievolisce/ tranquillamente/ per omertà”); ma anche, nella direzione più ristretta ma ugualmente importante della vita quotidiana, si impone il realismo da fescennino di alcuni componimenti che offrono un modello di poesia corrosiva che ferisce gli aspetti convenzionali e vuoti della vita borghese di provincia, ma incide al fondo anche possibile convenzione e stilizzazione di poesia paludata che fa ricorso agli orpelli.
Di Palo punta, com’è evidente, a una utilizzazione in chiave realistico-gnomica del filone epigrammatico che risale a Marziale e che modernamente sembra richiamarsi, oltre che al Pasolini teorizzatore dell’adeguamento della poesia al livello della prosa, a certo sperimentalismo sanguinetiano ma soprattutto alla programmatica prosasticità dl realismo di un Roversi e alla fine di un poeta come Nelo Risi con la sua definizione del poeta come un “supremo realista” e con la sua scelta, che Mengaldo (Poeti italiani del Novecento, 1989) definisce “provocatoria”, di una poetica dell’usuale: “ Se occorre arte perché siano vere/ le parole rare/ forse più ne occorre/ per essere stilisti dell’usuale”. In tal modo vengono recuperate in chiave ironica alcune situazioni tradizionali della realtà sentimentale, rovesciati alcuni topoi della poesia d’amore, magari facendo ricorso al procedimento dell’iterazione o al gioco in funzione prosastica (caro a Montale e soprattutto a Sanguineti) della parentesi a cui è affidato il messaggio realisticamente parodistico di alcune poesie. O si pensi all’epigrammatica raddensata e graffiante di questo Per ornamento: “Mi chiedi due versi per fartene ornamento/ considerato il caso ne scriverò duecento”, che ricorda da vicino certo Pasolini, ad esempio ne La religione del mio tempo il distico Al Principe Barberini: “Non sei mai esistito: ora, a un tratto risorto,/ fai, parli, minacci: ma sei cadavere di morto”.
La poesia di Domenico di Palo oscilla tematicamente fra la denuncia e la parodia della società e il ripiegamento nel privato, ad ascoltarne la superstita autenticità, come in componimenti quali Compleanno (sez. III), dedicato alla moglie Ena, dove anche un evento tradizionalmente celebrato dalla poesia diventa l’occasione per una dichiarazione di impossibilità poetica (“Ma occorre sforzo d’immaginazione/ occorre che tu mi dia l’imbeccata/ la poesia è quasi in pensione/ saprei fare solo una frittata”), che appare subito contraddetta dall’emergere di due immagini della realtà stessa, del quotidiano, nutrite tuttavia di poesia: perché è forse di qui, vuol dirci di Palo, che è possibile attingere nuova forza all’ispirazione poetica: “Eppure c’è una rosa nel bicchiere/ un passero frullante nelle aiuole”. E poesia delicata, del ricordo, ricordo dell’infanzia dei suoi figli rivissuta attraverso un’amorosa memoria, è la poesia della sezione VII,. nei due componimenti dedicati l’uno, Quel passerotto, alla figlia Francesca, ricco di accenti leopardiani (da A Silvia alle Ricordanze, “ Era - se ricordi – di maggio”; Leopardi, A Silvia: “Era il maggio odoroso”; “E ricordi la tua gioia/ nel ritrovarmi sempre a lato?”; Leopardi, Ricordanze: “sarammi a lato”), l’altro, Accendi la luna, a Pablo. Mentre nella penultima sezione è il suo personale quotidiano, la sua dimensione quasi crepuscolare, da bambino, che si impenna tuttavia nella rilevata inarca tura finale delle poesie, ad emergere in due componimenti – Un po’ di vino e Il territorio – contigui e gemellari, costruiti su incipit ritmicamente paralleli: “Mi piace, è vero, bere un po’ di vino”; “Mi piace, sai, stare un po’ sul fianco”.
Poesia del quotidiano, dell’andamento prosastico, dell’apertura realistica – specie nel lessico – all’antipoetico, questa poesia si nutre anche dell’adesione al ritmo popolare della filastrocca (Tu casa tu pancia tu rosa: “Tu casa tu pancia tu rosa/ tu nube soffiata dal vento/ ma pretendi chissà cosa/ con la scusa del sentimento”), come pure ingloba al suo interno, rompendo il tradizionale monolinguismo, il gergo politico-filosofico (Un due e tre via…: “Un due e tre via/ così dunque sia/ e non dire più n iente/ sulla piatta gestione/ dell’esistente/ sulla contraddizione permanente”), il linguaggio proverbiale (Non basta: “la rondine è sul tetto”; /tutto fumo e niente arrosto”) sino alle espressioni codificate (Quando per la tua fatica,: “marinai poeti e santi”) e ai ritmi di una musicalità infantile (Così: “c’è il sole in tutto il mondo/ e giro giro girotondo”).
Nell’apparente e quasi distratta casualità della sua poesia, di Palo rinuncia in realtà ai più sottili ricami culturali, come ben dimostra innanzitutto con la riscrittura di alcuni celebri componimenti: innanzitutto della sequenza medievale in ottonari (Dies irae, dies illa attribuita a Tommaso da Celano, trasformata in Alba dies/ dies alba, una applicazione quanto mai profana e giocosa di elementi cupi ed escatologici recuperati e rovesciati di segno nel ritmo dell’insistita m musicalità delle rime baciate e incatenate dei quaternari:

Alba dies
dies alba
tutto il dies
fin dall’alba
per amare.

Sa di ribes
la tua bocca
che oggidies
a me tocca di baciare.

Alba dies
dies alba
allba alba
nell’ebbrezza
che bellezza!

Perché quello della musicalità, dell’uso sapiente e insieme ironico della rima è veramente una peculiarità di queste poesie, , un atteggiamento da moderno cantastorie con cui di Palo sembra palazzeschianamente volersi divertire, esorcizzare il peso di un vissuto che, seppure guardato a distanza e ormai decantato, ha lasciato e continua a lasciare il segno:

Che freddo stasera
si sta bene dentro
non è primavera
tu sei fuori centro

tu sei fuori centro
su questo divano
e cupo di dentro
or chiedi una mano

or chiedi una mano
per come sei stanco
su questo divano
sdraiato di fianco

sdraiato di fianco
ti mangi la foglia
di rosso e di bianco
ti viene la voglia

ti viene la voglia
di farti un bicchiere
lei varca la soglia
si lascia vedere…

(Che freddo stasera)

A queste quartine di senari, segnate da un tipico procedimento di anadiplosi, sembra rispondere la sperimentazione dell’unico altro componi mento presente nella compatta sezione VIII della raccolta, intitolato Quando per la tua fatica, in cui le quartine di ottonari sottolineano con agile ironia aspetti consueti delle contraddizioni del nostro quotidiano.

Quando per la tua fatica
vuoi che ognun ti benedica
la reazione più banale
è tacciarti di banale.

Se tu pensi di restare
solo in pace in riva al mare
c’è il solito passante
che non ti molla un istante

E se prendi una sigaretta
per fumarla in tutta fretta
eccoti addosso i salutisti
petulanti e terroristi…

Nel sottile ripensamento della poesia dei suoi auctores – si pensi che la sezione IX è interamente dedicata, e proprio per sottolineare il valore e il significato del procedimento, alla riscrittura del Sabato del villaggio diventato Il sabato in città e de L’età dell’auto da Montale – di Palo esprime ancora una volta il penetrante e doloroso sarcasmo che prepotentemente anima la sua vena poetica offrendo – se ancora non era sufficiente – l’immagine di una poesia che reca segno e testimonianza del presente, ricca di un’intima tensione e rivissuta nella complessità di un’ispirazione autenticamente sperimentale, che rifiuta ogni fissità di schemi e di formule e che dal passato ha tratto il senso del valore di una parola vitale e mai bloccata, esorcizzante e liberatrice, una parola con cui pudicamente ma sapientemente giocare ma soprattutto in cui credere fermamente, al di sopra dello spettro della banalità convenzionale e logorante, o – diremmo con il nostro autore – ciononostante: “Di conseguenza e cionostante/ la vita più allegramente come/ se dopo averne passate tante/ è il tempo della consolazione” (Allegramente).

                                                                                                            

                                                                                                                Grazia Distaso




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“Sotto coperta”: La poesia di Domenico di Palo, in “Misure critiche”, rivista trimestrale di letteratura ed altro, nn. 100-101-102, Napoli giugno 1998

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