Domenico di Palo

GIOVANNI DE GENNARO


Gentili signore e signori, amici, mi sono assunto volentieri il compito di far conoscere agli amici di Molfetta l’ultimo volume di poesie di Domenico di Palo, “La bella sorte”, pubblicato dall’Editrice La Vallisa di Bari l’anno scorso, e non perché io sia uno scopritore di talenti poetici. Domenico di Palo non ha bisogno di essere scoperto. Intanto ha pubblicato un libro di versi nel 1959 ed ha affidato le notazioni poetiche che man mano la sua esperienza esistenziale gli ispirava a giornali e riviste, riscuotendo giudizi di lusinghiera attenzione, da parte di Salvatore Quasimodo, che nel ’68 intendeva pubblicarlo nella sua collana dell’editore Marotta di Napoli, di Giorgio Bàrberi Squarotti, di Nino Palumbo.
Con “La bella sorte”, che raccoglie i versi dal ’60 all’85, presentato da Maria Marcone e Giuliano Manacorda, di Palo si è inserito con la originalità della sua poesia nel gruppo abbastanza nutrito di poeti pugliesi e meridionali e comparirà con inediti nell’antologia di poeti pugliesi “Per/versi”, che Angelo Lippo ha curato per l’Editrice Scorpione di Taranto. Il volume, già presentato in alcuni centri della Puglia, ha suscitato molto interesse e notevoli apprezzamenti.
Di Palo tiene molto, bontà sua, al giudizio dei lettori molfettesi che conosce, per costante tradizione culturale, sensibili fruitori di poesia, credo anche per la natura diversa del suo estro, che non è orientato verso l’evasione delle immagini e della fantasia o verso l’intimismo lirico, o l’esasperata sensibilità della solitudine, temi che caratterizzano tanta parte della copiosa produzione poetica dei molfettesi, con cui di Palo sembra cercare un dialogo ed un confronto.
Conosco Domenico di Palo da una quindicina d’anni e non solo come professore di Italiano e Latino nel Liceo Scientifico, prima di Barletta, poi di Trani, tra i tanti che ho incontrato ed incontro che segretamente scrivono poesie, ma piuttosto come uno dei giovani intellettuali degli anni ’60 e ’70 che animarono i movimenti culturali e politici del ’68 e del ’77 agitando le generose utopie di rivoluzione culturale che furono oltretutto il segno premonitore e forse velleitario della presa di coscienza della profonda crisi del moderno e della civiltà occidentale in cui ancora ci dibattiamo.
Furono in quegli anni sbandierati gli ideali ludici ed erotici di Marcuse e di Reich, la libertà anarchica dell’epistemologia scientifica di Popper, la religiosità atea di nuove scienze umane, contro l’ottimismo e la progettualità storicistica, idealistica e marxistica insieme, esplosivamente divenuti facili temi delle sue aspirazioni giovanili, in nome del collettivo. Il radicalismo giovanile, applicando con intransigenza la categoria hegeliana della totalità, non sopportava distinzioni tra pubblico e privato, fantasia e razionalità, invenzione e politica: si chiedeva l’immaginazione al potere e la riappropriazione di una vitalità senza confini. In una Italia provinciale, ancora invischiata nei rigidi ideologismi politici, il bersaglio erano il politicismo cattolico, il conformismo comunista, il burocratismo deludente della democrazia, la logica spietata della produttività capitalistica e la strumentalizzazione della società e dell’individuo.
Ho imparato a stimare affettuosamente Domenico di Palo perché ha creduto in questa palingenesi libertaria, agitandosi per le piazze, ma soprattutto perché non è diventato, una volta spenti gli orgasmi rivoluzionari, n funzionario di partito se non addirittura, come ironizzava Ionesco dei sessantottini di Parigi, un funzionario di prefettura. Ma ha continuato, caso non comune, ad inseguire disperatamente i valori sottintesi in quella ebrietà e, caso ancora più raro, a battersi per essi, come utopisticamente conviene, ostinatamente  da solo e senza sentirsi sconfitto.
Ha resistito a tutte le lusinghe di schieramento, da quello libertario-socialista che intanto offriva il vantaggio di coperture para-governative, a quello comunista con il suo statico attivismo di massa, né da buon pentito è diventato mistico o chiesastico; ha scartato anche la sperimentazione nel privato di quell’anarchismo sessual-politico in cui sono precipitati molti reduci del ’68 sdegnando i surrogati artificiali degli entusiasmi rivoluzionari o peggio ancora il tragico e sanguinoso sado-masochismo nei confronti delle istituzioni.
Questa specie di selezione catartica di atteggiamenti che hanno contraddistinto la vita culturale e politica nei dieci anni che vanno dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 è avvenuta per un rifiuto generale ma attraverso una sofferta esperienza personale, politica ed organizzativa che parte dalla militanza comunista ad iniziare dal ’60, attraverso una crisi di identità nel ’64, che lo porta a militare nel PSIUP di Basso, Valori, Vecchietti per dare espressione alle esigenze di rinnovamento della sinistra, auspicate dai !Quaderni rossi” di Renato Panieri. Si ritrova consigliere comunale di Trani dal ’70 al ’75 in opposizione da una parte alla DC, al PSI ed ai partiti del centro-sinistra, dall’altra al PCI, senza contare la irriducibile antitesi al MSI, in nome prima del PSIUP, poi dal ’71 del MANIFESTO, poi del PDUP, in dialogo costante con gli altri  movimenti della sinistra, dalle posizioni di Autonomia al gruppo di Democrazia Proletaria.
Si può considerare la sua una esperienza emblematica di una generazione, cresciuta e nutrita nei valori della democrazia, che ha creduto radicalmente e con intransigenza illuministica, di poter condurre alle estreme conseguenze le premesse delle ideologie storiche che si sono così frantumate alla rigorosa verifica del consenso in na crisi di riflusso che è ancora lontana dal risolversi.
Nel riflusso a partire dal ’78 gli è rimasta compagna la poesia e l’ostinazione intellettuale nel pubblicare un giornaletto, “SINGOLARE/PLURALE”, nella sua città, Trani, fatto da solo ed in casa, con cui tra querele e minacce, a furia di martellate in testa ai benpensanti borghesi ed ai conformisti di sinistra, è riuscito a smuovere pigrizie e ad enucleare una corrente di opinione.
Ha scelto se vogliamo una via salveminiana, da “pazzo melanconico” come si definiva Gaetano Salvemini.
In margine alle pagine dattiloscritte del giornale simile ai Smirdat, le pubblicazioni clandestine che circolavano nell’Unione Sovietica, pubblicava intanto in mezzo ad aspre polemiche contro tutti, qualche breve poesia, come una pensosa riflessione, una pudica confessione.
Sapevo che scriveva versi, ma il poeta di Palo l’ho conosciuto così, su “SINGOLARE/PLURALE”, tra denuncie di scandali amministrative e politici ed impietose analisi di costume dei suoi concittadini.
Nei versi si sentiva il respiro della meditata lettura di Montale, ma come una eco lontana, uno sfondo, subito animato dalla tensione sociale che faceva pensare prima a Bertolt Brecht per il taglio dissacrante ed antiretorico e poi a Rocco Scotellaro, suo primo amore, e Pavese e Pasolini per una affiorante vena di coralità proletaria, negata spesso al filtro di una sofferta e vigile individualità. Era una voce originale ma non isolata se si coglievano certe cadenze alla seconda maniera di Vittorio Sereni degli “Strumenti umani” del ’65 o di Nelo Risi.
Ma non più di questi incostanti riferimenti. L’incanto era sì nell’accorato recupero d’una memoria esaltante come “il delirio di una notte” che addolciva e dava un senso alla drammaticità del presente, ma, nel taglio spesso prosastico e gnomico certi residui di retorica “sinistrese” erano corrosi  da una dolorosa ironia nel contrasto con la banalità e la menzogna irridente del quotidiano e scoprivano la carne viva di un rapporto umano autentico con gli altri, senza mediazioni ideologiche.
“La bella sorte” raccoglie tutta insieme la varietà di voci della poesia di di Palo: i sessantasei componimenti sono come una storia ideale, senza riferimenti e sena data, di una stagione dell’anima, pur radicata ad un tempo reale, in cui il poeta si è sentito vivere pienamente ed ha riconosciuto se stesso, gli altri, la vita, le cose in quell’ordine irrazionale che ha dato segno e valore ai “consueti fenomeni maturali”.
Così introduce, a lettere maiuscole a guisa di epigrafe, la raccolta:

MANCA UNA DATA
MA BISOGNA CONVENIRE
CHE LA STORIA E’ DI LUNGA DURATA
REALE QUANTO SOGNATA
BUONA A SDIPANARE ESPLOSIONI SOTTERRANEE
OGGETTI ELENCATI CON ORDINE IRRAZIONALE
RAPPORTI INVOLUTI PEGNI IMMAGINARI
INCERTEZZE RANCORI SEQUENZE
E SEGNI AMPLIFICATI
DI CONSUETI FENOMENI NATURALI.

“La bella sorte” echeggia “La bella estate” di Pavese, la stagione magica dei segni ma, suprema ironia, l’anima che  si realizza in quella stagione, l’anima bella dei romantici alla Schiller, è anche nient’altro che la sequenza di incertezze, rancori, rapporti involuti, esplosioni sotterranee, cioè di consueti fenomeni naturali.
La raccolta è accompagnata da disegni di Ivo Scaringi, che non sono illustrazioni: fanno pensare invece ad un dialogo, ad un costante richiamo di parole e di ritmi, a segni ed immagini, ad un discorso comune e confidente di compagni di lotta che si ritrovano, nella diversità di esperienze, compagni di vita: Il realismo lirico, sofferto e frantumato di Scaringi, diventa così una componente implicita della raccolta poetica.
I componimenti, senza data, sono raggruppati e disposti secondo una logica interna di una vicenda che può essere d’ogni tempo, tutta interiore.
Comincia da un’alba:

                                         …sopraggiunse l’alba
                                         a impallidire l’assurdo delirio
                                         di una notte di stelle
                                         che faceva risacca
                                         sui cocci sparsi per la strada.

                                         E ci poggiammo al giorno
                                         come il gabbiamo si poggia allo scoglio
                                         stanco di scrivere in cielo
                                         la sua domestica libertà.

La stagione del sogno è finita: subentra la ripetitività meccanica ed ordinata dei giorni uguali ed i compagni della lotta così si ritrovano:

                                       Eravamo bracconieri di sogni
                                       rintanati all’addiaccio
                                       con le fiamme che in dialogo
                                       frantumavano una sera di aprile.
                                      
                                       Ora che il giorno è ritornato
                                       mi puoi dire
                                       se quella notte tu c’eri
                                       a seguire le orme dei miei rimpianti.

Le prime composizioni riflettono, sempre nel ricordo, l’impegno politico e civile: emblematico è il ricordo della Marcia della pace, del ’63, dove nella narrazione ritmata brilla ad un tratto la notazione poetica, breve e profonda:

                                     Eravamo in tanti
                                     giunti da ogni parte
                                     della Puglia e della Lucania
                                     senza fretta e con la calma
                                     di chi sa ciò che vuole
                                     perché gli è familiare
                                     come il vestito che indossa
                                     ( …)
                                     Avanti,
                                     gridando tutti insieme
                                     e quel grido ci esaltava
                                     e forzava ostinato
                                     un passo dietro l’altro.
                                     Ai bordi della strada
                                     avvolte in pesanti scialli neri
                                     le donne ci aspettavano
                                     e sentendoci gridare
                                     piangevano.

Ma l’attenzione poetica non mira tanto all’azione ed agli obiettivi da raggiungere, in cui la poesia engagé ha spesso rischiato la retorica parenetica ed il realismo descrittivo: sta invece nel riflesso interiore dei protagonisti, nel dramma avvertito di dar testimonianza senza badare al risultato, nella amarezza di dover negare il mondo e dar sofferenza per vedere affermata la verità, con la ordinata stanchezza della determinazione.
L’eroe è così diminuito a dimensione umana sempre in conflitto con un limite:

                                   Davvero eri stanco
                                   se mi pareva di vedere sulle tue spalle
                                   il peso di tutto quanto il mondo
                                   e tu restavi inchiodato
                                   al tuo silenzio opaco
                                   come un uomo dall’entusiasmo mozzato.
                                   Eri stanco. Ma io sapevo
                                   cos’era la tua stanchezza
                                   quella vecchia bestia
                                   ch’era sempre in agguato
                                   e lascia le sue impronte
                                   sulla passione più viva
                                   sull’amore scoperto
                                   su quella norma di vita
                                   che per la pietà
                                   ci faceva spietati.

A stimolare il protagonista era “la nostra grande voglia/ di seppellire il male”; ed aggiunge: “per strapparti di dosso/ quella tua stanchezza/ ch’era pure la nostra/ non ti dicevo di aspettare la fine/ ma di cominciare da capo…”.
La motivazione della crisi si trova già nella riflessione disperata sul vano entusiasmo della azione: “Disseccata - pensavo/ come le fosse d’acqua d’estate/ la nostra fede muore nel silenzio/ e il male riemerge…”.
E conclude:

                                   Ho fatto ciò che mi era dato di fare
                                   ed anche se oggi mi riesce difficile
                                   ho abbastanza coraggio
                                   per non prendermi la testa fra le mani
                                   e restarmene solo
                                   a pensare al mio amore perduto.

Non c’è soltanto completa dedizione nel rapporto con il movimento, con la struttura organizzata, ma già compare una oggettiva, forse non voluta ironia nel tratteggiare il compagno della direzione:                    

                                   Venne il compagno della direzione.
                                   Parlò bene, per un paio d’ore
                                   e col calore di chi nell’analisi
                                   ci ha messo tutta la sua passione.
                                   Poi, mentre si stava ad ascoltare,
                                   disse che le cose da noi
                                   comunque andavano male.
                                   Ci fu lo starnuto del vecchio
                                   il solito sputo per terra
                                   il raschio di gola e la sedia
                                   spostata col più grande rumore.
                                   Ma a nessuno passò per la testa
                                   di parlare.
                                   Seri, con il cuore pesante
                                   e le mascelle contratte
                                   fino a farci male:
                                   c’erano tante cose
                                   di certo da aggiustare.
                                   Finché lì, dal suo posto
                                   come se non ci fosse nulla di grave
                                   il compagno della direzione
                                   disse tranquillo
                                   che bisognava darsi da fare.
                                   E con la faccia migliore del mondo
                                   semplice e ferma
                                   com’era la sua voce.

Ma ora la vita di ogni giorno impone le sue regole ed il rovescio degli entusiasmi incalza periodicamente e poi definitivamente lo sommerge:

                                   Il mattino comincia con le solite cose
                                   poi ti metti al lavoro
                                 e non ti accorgi nemmeno
                                 che il tuo pensiero somiglia
                                 all’ultimo slogan di Carosello.

Prevale il cosiddetto buon senso e così: “il sole ristagna nel tuo cuore/ e cresce la muffa/ sulla tua sciocca saggezza”.
Occorre pure conservare il rapporto con gli altri; con chi si impegna nella discussione, ed il tono diventa beffardo: “Lui pensa, ragiona/ ha l’arte del dire/ ma non riesce a capire/ che in tanta sapienza/ a volte ci vuole/ anche un po’ di coerenza”. O con il collega:”Se avessi almeno il pudore/ di metterti da parte/ mi risparmieresti la briga/ di occuparmi di te./ Ma tu hai tanta arte/ e tanto gusto che/ nonostante il pessimo umore/ che ti costa la fatica/ di fare il tuo dovere/ continui ‘siccome suole’/ a dire che credi/ nel tuo mestiere”. Si può dire di lui: “Pare che pensi/ quel tanto che basta/ per appartenersi”.
In questo clima il dialogo con gli altri sulle cosiddette questioni concrete, la presunta razionalità, la ponderazione nell’agire diventa un vaniloquio assurdo e scontato:

                                 In merito
                                 al misfatto compiuto
                                 al dialogo avviato
                                 o al punto di vista
                                 nel caso indicato
                                 nel fumo grigiastro
                                 che c’impasta la bocca
                                 c’è sempre la soluzione
                                 che alla fine ci sblocca.
                                 E facciamo pazienti
                                 la nuova previsione
                                 che in tempo di precedenti
                                 ha pure il fascino
                                 della confezione.

I giorni si susseguono uguali ed approfondiscono la disperazione. In “Deduzioni”, che è una delle dieci parti del volume, ogni giorno della settimana è scandito con una terribile conclusione. Citiamo “Mercoledì”.

                               Una sola parola d’ordine
                               in tanto spreco d’indifferenza:
                               patire con tutte le forze
                               la povertà morale
                               di quelli che son pronti a rinnegare
                               per sopravvivere morendo.

Oppure “Giovedì”:

                             Ormai è risaputo:
                             si cammina con le mani avanti
                             a furia di sentirsi riprendere
                             dalla fredda chiarezza
                             dei raziocinanti.
 

O la conclusione di “Sabato”:

                           Per troppa pietà
                           costretti alla convivenza
                           per troppa volontà
                           costretti all’impotenza
                           per troppa ragione
                           costretti all’incoerenza.

Ma c’è uno spiraglio che ci aiuti a vivere? “MENDICANDO L’AMORE/ TUTTO E’ DISPONIBILE”; cercando mani amiche come il più antico segno di solidarietà nel buio: “Vedi: siamo l’uno/ diverso dall’altro/ e a dirci parole/ a dare un senso/ al nostro rapporto/ abbiamo avari slanci./ Ma il cuore, lo sai,/ è già stanco/ e la ragione/ non è più che un vizio/ di chi per viltà/ preferisce star solo”. “Chi potrebbe, allora,/ farsi nostro giudice/ e chi non capirebbe/ questi silenzi enormi/ e queste nostre mani/ che si cercano nel buio”. Non rimane che: “… come un figlio di cane/ stare lì a guardare/ mani - a decine - di passanti”.
La riflessione si fa così meno disperata:
                        
                           Come se tutto già fosse deciso
                           e la pista già fosse battuta
                           e lo scotto pagato
                           e la merce scomposta
                           con segni precisi del capo
                           estenuato e con la bocca muta
                           ti reggi sotto una frana
                           di sogni di pietra
                           e l’amore già suda
                           fatiche e pena.


E’ possibile sopravvivere solo accontentandosi di breve, esile conforto:

                           Poterci parlare soltanto così
                           senza preamboli
                           o assurde reticenze bizantine
                           poi con le mani alzate
                           come per un attimo di pace                          
                           insieme rivedere l’equazione
                           al di là dello sforzo apatico
                           di darci un’altra ragione
                           sufficiente a sopravvivere.


Un momento di gioia è solo una anomalia della sorte:
                                        
                         L’anomalia di quando
                         un’indicibile dolcezza
                         un paesaggio infiammato
                         una stupenda chiarezza
                         il silenzio di quando
                         spalla a spalla
                         troppo innocenti
                         o troppo abbarbicati
                         al lume di una candela morente
                         il cielo si innalzava in un istante.


Occorre farsi una ragione “con discrezione” , con ironia, “con un poco di zelo”, per “ritrovare nel vanto/ della pazienza acquisita/ l’ultima pretesa”.
Ormai si è appresa la “regola del gioco”:
                                      
                       Manipolare la vita a piacimento
                       assecondare l’ilare comportamento
                       di chi ha da sempre capito
                       i termini fluidi dell’andamento
                       e in omaggio alla più lucida coscienza
                       ridurre a sotto zero la fatica
                       sprecata nella sopravvivenza.

                       Applicare ad ogni valutazione
                       il marchio sublime della comprensione
                       o uniformare l’intenzione
                       a quella del più forte
                       lasciando alla propria sorte
                       il privilegio soltanto della decantazione
                       nel tanto che consente l’immaginazione.

                       E complici di scontate soluzioni
                       senza più il rischio di ulteriori dispersioni
                       vantarsi così di un gesto mancato
                       di un sogno frustrato
                       se in questo esistere e morire a poco a poco
                       ormai consiste tutta la nuova
                       ineffabile regola del gioco.


Non sfugge alla regola nemmeno il letterato:
                                    
                       Lui che ha avuto il culto
                       della misura e della discrezione
                     (…)
                       un giorno tranquillo
                     del secolo nucleare
                     è quasi riuscito a capire
                     di essere inutile
                     e terribilmente imbecille.

La storia che è così una specie di commedia dantesca rovesciata, dal paradiso degli entusiasmi e della fede, all’inferno dell’arido quotidiano, si conclude in gioco, in un gioco di parole, usate non più nella dimensione seriosa di un discorso significante, ma nell’automatismo dei fonemi, del linguaggio burocratico e raziocinante per cui l’assonanza e la rima diventano motivo d’ironia distruttiva:

                                                         Pronunciarsi
                                                             sempre
                                                     e coi gesti solenni
                                             delle valorizzazioni formali
                                                               poi
                                                         per un poco
                                           sottolineare il valore generale
                                                               o
                                                     per meglio dire
                                     generalizzando la situazione particolare
                                                             per cui
                                                       tirate le somme
                                                 la verifica non si pone
                                           perché inopportuna prematura
                                                         e solitaria.


L’aspetto più originale della poesia di Mimì di Palo è proprio in questa caricatura del discorso saputo e sicuro che vuol essere appropriato e convincente e di cui invece si scopre la meschinità radicale, l’ambivalenza irridente. E se si pensa che dietro il discorso c’è la parola e nella parola il pensiero e la civiltà dell’uomo, l’irrisione non è più uno scherzo ma assume le dimensioni di una tragica nullificazione. I termini in se stessi possono essere di un discorso ufficiale d’un capo politico, alla guida di una grande potenza, d’un sindacalista che raccoglie il consenso di enormi masse, di uno scienziato che intende rivelare una verità, d’un manager che concepisce un grandioso progetto, ma messi in un certo ordine, con un piccolo spostamento dei codici linguistici, assumono una significanza opposta ed esprimono il pauroso vuoto della presunzione o la fragilità del più solenne impegno umano:

                                   Assimilato, comunque, convenuto
                                   totalmente identificato
                                   testimone compiaciuto
                                   di un’altra partita
                                   dove non resta
                                   che fingere la battuta
                                   o prendere la droga
                                   dello status conquistato.
                                  
                                   E quindi rifarsi a quel limite
                                   assuefatto alla bontà della sorte
                                   e al prodotto acquistato
                                   al contenuto nutritivo
                                   e al prezzo di mercato
                                   persuaso così, dopotutto,
                                   di comporre la vertenza
                                   coprire il disavanzo
                                   e dipanare - ad ogni costo –
                                   la questione
                                   prima delle vacanze.


Pur in mezzo a queste beffarde e spietate riflessioni, seriose ma di colpo svuotate dalla allusione alle vacanze, la poesia dei sentimenti e delle immagini (della immagine pura nella sua genuina semplicità, che coglie il momento magico, in cui sentimento, parola e ritmo si fondono insieme) non è esclusa dalla poesia di di Palo. Compare improvvisamente in alcuni brevi versi alla maniera di Umberto Saba, come questi: “Lei/ ha dato/ stasera/ passando di corsa/ segno di vederlo:/ Velocemente/ con un piccolo/ gesto/ della mano”; o in questi altri: “… tu sei come l’acqua/ sulla tua pelle bruna/ e i tuoi gesti di bambina”, dove l’assenza di coordinazione crea una meravigliosa associazione di immagini.

Ma Mimì di Palo, al di là di questi squarci, sente soprattutto la poesia tragica del destino dell’uomo, ma dell’uomo storicizzato nella società, nei rapporti di lavoro, nella relazione esistenziale, nella personale esperienza. Per questa sofferta concretezza, che è anche limite alla sua libertà, la sua poesia evita il linguaggio letterario astorico che è tipico della solitudine provinciale: La sua non è una poesia evasiva e consolatoria che derivi dalla sconfitta, non si rinchiude nell’intimismo lirico, non si appaga della sensazione esasperata e non rinuncia alla ragione. Si sottrae sia sul piano contenutistico sia sul piano formale ad ogni influenza scontata che sarebbe prevedibile in un professore di letteratura italiana. Perciò è la sua una poesia originalissima e moderna che scaturisce dal quotidiano, dal vissuto, della concettosità delle terminologie convenzionali ed utilizza strumenti e modi espressivi inusuali, antiletterari, cogliendo nelle forme della comunicazione della società burocratica, automatizzata ed alienata, cadenze, ritmi e banalità che rivelano tutta la povertà espressiva che si nasconde dietro la cortina di quei segni logico-fonetici che non si possono chiamare parole.
Il sintagma, i termini, perdono il loro significato codificato ed acquistano dai fonemi sapientemente accostati, da assonanze e contrasti una intenzionalità opposta che non è parodistica. Il verso senza misura, lapidario e sentenzioso, apparentemente solenne ma come deformato riesce ad esprimere così il dolore della caduta, dello svuotamento, non solo dei propri ideali e d’un certo tempo, ma dei valori dell’uomo e della vita contemporanea nelle sue manifestazioni più comuni, che il poeta sembra disprezzare ma che, con profonda tensione morale, vuole invece chiamare, recuperare ad una irrinunciabile salvezza.

La poesia di Domenico di Palo non si può dire nemmeno impegnata, civile, come ha detto qualcuno, engagé insomma. Pur scaturendo dalla drammaticità d’un particolare momento culturale non vuol essere persuasiva di una soluzione, non è databile. Anche il richiamo del privato familiare, la terraferma del vincolo affettivo, il padre, la moglie, i figli, che pur compaiono a tratti come temi poetici, non sfuggono al “rimorso del non dato”, al silenzio stupefatto, alla percezione dell’annichilimento.
Ho avvertito in di Palo una poesia della crisi del mondo contemporaneo, vista attraverso l’insignificanza di qualsiasi discorso, la convenzionalità scoperta dei rapporti sociali, il depauperamento dei valori, la fragilità e provvisorietà degli affetti.
Semmai l’aspirazione di fondo, “il problema reale è l’uso perenne della libertà totale” che la vita però, in quanto tale, nega.

Insomma Mimì di Palo è un romantico, inguaribile anarchico.

Giovanni De Gennaro
 

 

*Per la presentazione de “La bella sorte” a Molfetta, Sala dei Templari,   il 10 aprile del 1986; poi pubblicato in “Singolare/Plurale”, n. 46, Trani, 1986.

< indietro