GIOVANNI DE GENNARO
Gentili
signore e signori, amici, mi sono assunto volentieri il compito di far
conoscere agli amici di Molfetta l’ultimo volume di poesie di
Domenico di Palo, “La bella sorte”, pubblicato
dall’Editrice La Vallisa di Bari l’anno scorso, e
non perché io sia uno scopritore di talenti poetici.
Domenico di Palo non ha bisogno di essere scoperto. Intanto ha
pubblicato un libro di versi nel 1959 ed ha affidato le notazioni
poetiche che man mano la sua esperienza esistenziale gli ispirava a
giornali e riviste, riscuotendo giudizi di lusinghiera attenzione, da
parte di Salvatore Quasimodo, che nel ’68 intendeva
pubblicarlo nella sua collana dell’editore Marotta di Napoli,
di Giorgio Bàrberi Squarotti, di Nino Palumbo.
Con “La bella sorte”, che raccoglie i versi dal
’60 all’85, presentato da Maria Marcone e Giuliano
Manacorda, di Palo si è inserito con la
originalità della sua poesia nel gruppo abbastanza nutrito
di poeti pugliesi e meridionali e comparirà con inediti
nell’antologia di poeti pugliesi
“Per/versi”, che Angelo Lippo ha curato per
l’Editrice Scorpione di Taranto. Il volume, già
presentato in alcuni centri della Puglia, ha suscitato molto interesse
e notevoli apprezzamenti.
Di Palo tiene molto, bontà sua, al giudizio dei lettori
molfettesi che conosce, per costante tradizione culturale, sensibili
fruitori di poesia, credo anche per la natura diversa del suo estro,
che non è orientato verso l’evasione delle
immagini e della fantasia o verso l’intimismo lirico, o
l’esasperata sensibilità della solitudine, temi
che caratterizzano tanta parte della copiosa produzione poetica dei
molfettesi, con cui di Palo sembra cercare un dialogo ed un confronto.
Conosco Domenico di Palo da una quindicina d’anni e non solo
come professore di Italiano e Latino nel Liceo Scientifico, prima di
Barletta, poi di Trani, tra i tanti che ho incontrato ed incontro che
segretamente scrivono poesie, ma piuttosto come uno dei giovani
intellettuali degli anni ’60 e ’70 che animarono i
movimenti culturali e politici del ’68 e del ’77
agitando le generose utopie di rivoluzione culturale che furono
oltretutto il segno premonitore e forse velleitario della presa di
coscienza della profonda crisi del moderno e della civiltà
occidentale in cui ancora ci dibattiamo.
Furono in quegli anni sbandierati gli ideali ludici ed erotici di
Marcuse e di Reich, la libertà anarchica
dell’epistemologia scientifica di Popper, la
religiosità atea di nuove scienze umane, contro
l’ottimismo e la progettualità storicistica,
idealistica e marxistica insieme, esplosivamente divenuti facili temi
delle sue aspirazioni giovanili, in nome del collettivo. Il radicalismo
giovanile, applicando con intransigenza la categoria hegeliana della
totalità, non sopportava distinzioni tra pubblico e privato,
fantasia e razionalità, invenzione e politica: si chiedeva
l’immaginazione al potere e la riappropriazione di una
vitalità senza confini. In una Italia provinciale, ancora
invischiata nei rigidi ideologismi politici, il bersaglio erano il
politicismo cattolico, il conformismo comunista, il burocratismo
deludente della democrazia, la logica spietata della
produttività capitalistica e la strumentalizzazione della
società e dell’individuo.
Ho imparato a stimare affettuosamente Domenico di Palo
perché ha creduto in questa palingenesi libertaria,
agitandosi per le piazze, ma soprattutto perché non
è diventato, una volta spenti gli orgasmi rivoluzionari, n
funzionario di partito se non addirittura, come ironizzava Ionesco dei
sessantottini di Parigi, un funzionario di prefettura. Ma ha
continuato, caso non comune, ad inseguire disperatamente i valori
sottintesi in quella ebrietà e, caso ancora più
raro, a battersi per essi, come utopisticamente conviene,
ostinatamente da solo e senza sentirsi sconfitto.
Ha resistito a tutte le lusinghe di schieramento, da quello
libertario-socialista che intanto offriva il vantaggio di coperture
para-governative, a quello comunista con il suo statico attivismo di
massa, né da buon pentito è diventato mistico o
chiesastico; ha scartato anche la sperimentazione nel privato di
quell’anarchismo sessual-politico in cui sono precipitati
molti reduci del ’68 sdegnando i surrogati artificiali degli
entusiasmi rivoluzionari o peggio ancora il tragico e sanguinoso
sado-masochismo nei confronti delle istituzioni.
Questa specie di selezione catartica di atteggiamenti che hanno
contraddistinto la vita culturale e politica nei dieci anni che vanno
dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70
è avvenuta per un rifiuto generale ma attraverso una
sofferta esperienza personale, politica ed organizzativa che parte
dalla militanza comunista ad iniziare dal ’60, attraverso una
crisi di identità nel ’64, che lo porta a militare
nel PSIUP di Basso, Valori, Vecchietti per dare espressione alle
esigenze di rinnovamento della sinistra, auspicate dai !Quaderni
rossi” di Renato Panieri. Si ritrova consigliere comunale di
Trani dal ’70 al ’75 in opposizione da una parte
alla DC, al PSI ed ai partiti del centro-sinistra, dall’altra
al PCI, senza contare la irriducibile antitesi al MSI, in nome prima
del PSIUP, poi dal ’71 del MANIFESTO, poi del PDUP, in
dialogo costante con gli altri movimenti della sinistra,
dalle posizioni di Autonomia al gruppo di Democrazia Proletaria.
Si può considerare la sua una esperienza emblematica di una
generazione, cresciuta e nutrita nei valori della democrazia, che ha
creduto radicalmente e con intransigenza illuministica, di poter
condurre alle estreme conseguenze le premesse delle ideologie storiche
che si sono così frantumate alla rigorosa verifica del
consenso in na crisi di riflusso che è ancora lontana dal
risolversi.
Nel riflusso a partire dal ’78 gli è rimasta
compagna la poesia e l’ostinazione intellettuale nel
pubblicare un giornaletto, “SINGOLARE/PLURALE”,
nella sua città, Trani, fatto da solo ed in casa, con cui
tra querele e minacce, a furia di martellate in testa ai benpensanti
borghesi ed ai conformisti di sinistra, è riuscito a
smuovere pigrizie e ad enucleare una corrente di opinione.
Ha scelto se vogliamo una via salveminiana, da “pazzo
melanconico” come si definiva Gaetano Salvemini.
In margine alle pagine dattiloscritte del giornale simile ai Smirdat,
le pubblicazioni clandestine che circolavano nell’Unione
Sovietica, pubblicava intanto in mezzo ad aspre polemiche contro tutti,
qualche breve poesia, come una pensosa riflessione, una pudica
confessione.
Sapevo che scriveva versi, ma il poeta di Palo l’ho
conosciuto così, su “SINGOLARE/PLURALE”,
tra denuncie di scandali amministrative e politici ed impietose analisi
di costume dei suoi concittadini.
Nei versi si sentiva il respiro della meditata lettura di Montale, ma
come una eco lontana, uno sfondo, subito animato dalla tensione sociale
che faceva pensare prima a Bertolt Brecht per il taglio dissacrante ed
antiretorico e poi a Rocco Scotellaro, suo primo amore, e Pavese e
Pasolini per una affiorante vena di coralità proletaria,
negata spesso al filtro di una sofferta e vigile
individualità. Era una voce originale ma non isolata se si
coglievano certe cadenze alla seconda maniera di Vittorio Sereni degli
“Strumenti umani” del ’65 o di Nelo Risi.
Ma non più di questi incostanti riferimenti.
L’incanto era sì nell’accorato recupero
d’una memoria esaltante come “il delirio di una
notte” che addolciva e dava un senso alla
drammaticità del presente, ma, nel taglio spesso prosastico
e gnomico certi residui di retorica “sinistrese”
erano corrosi da una dolorosa ironia nel contrasto con la
banalità e la menzogna irridente del quotidiano e scoprivano
la carne viva di un rapporto umano autentico con gli altri, senza
mediazioni ideologiche.
“La bella sorte” raccoglie tutta insieme la
varietà di voci della poesia di di Palo: i sessantasei
componimenti sono come una storia ideale, senza riferimenti e sena
data, di una stagione dell’anima, pur radicata ad un tempo
reale, in cui il poeta si è sentito vivere pienamente ed ha
riconosciuto se stesso, gli altri, la vita, le cose in
quell’ordine irrazionale che ha dato segno e valore ai
“consueti fenomeni maturali”.
Così introduce, a lettere maiuscole a guisa di epigrafe, la
raccolta:
MANCA UNA DATA
MA BISOGNA CONVENIRE
CHE LA STORIA E’ DI LUNGA DURATA
REALE QUANTO SOGNATA
BUONA A SDIPANARE ESPLOSIONI SOTTERRANEE
OGGETTI ELENCATI CON ORDINE IRRAZIONALE
RAPPORTI INVOLUTI PEGNI IMMAGINARI
INCERTEZZE RANCORI SEQUENZE
E SEGNI AMPLIFICATI
DI CONSUETI FENOMENI NATURALI.
“La
bella sorte” echeggia “La bella estate”
di Pavese, la stagione magica dei segni ma, suprema ironia,
l’anima che si realizza in quella stagione,
l’anima bella dei romantici alla Schiller, è anche
nient’altro che la sequenza di incertezze, rancori, rapporti
involuti, esplosioni sotterranee, cioè di consueti fenomeni
naturali.
La raccolta è accompagnata da disegni di Ivo Scaringi, che
non sono illustrazioni: fanno pensare invece ad un dialogo, ad un
costante richiamo di parole e di ritmi, a segni ed immagini, ad un
discorso comune e confidente di compagni di lotta che si ritrovano,
nella diversità di esperienze, compagni di vita: Il realismo
lirico, sofferto e frantumato di Scaringi, diventa così una
componente implicita della raccolta poetica.
I componimenti, senza data, sono raggruppati e disposti secondo una
logica interna di una vicenda che può essere
d’ogni tempo, tutta interiore.
Comincia da un’alba:
…sopraggiunse
l’alba
a impallidire l’assurdo delirio
di una notte di stelle
che faceva risacca
sui cocci sparsi per la strada.
E ci poggiammo al giorno
come il gabbiamo si poggia allo scoglio
stanco di scrivere in cielo
la sua domestica libertà.
La stagione del sogno è finita: subentra la ripetitività meccanica ed ordinata dei giorni uguali ed i compagni della lotta così si ritrovano:
Eravamo bracconieri di sogni
rintanati all’addiaccio
con le fiamme che in dialogo
frantumavano una sera di aprile.
Ora che il giorno è ritornato
mi puoi dire
se quella notte tu c’eri
a
seguire le orme dei miei rimpianti.
Le prime composizioni riflettono, sempre nel ricordo, l’impegno politico e civile: emblematico è il ricordo della Marcia della pace, del ’63, dove nella narrazione ritmata brilla ad un tratto la notazione poetica, breve e profonda:
Eravamo in tanti
giunti
da ogni parte
della Puglia e della Lucania
senza fretta e con la calma
di chi sa ciò che vuole
perché gli è familiare
come il
vestito che indossa
(
…)
Avanti,
gridando
tutti insieme
e quel
grido ci esaltava
e
forzava ostinato
un passo dietro l’altro.
Ai bordi
della strada
avvolte
in pesanti scialli neri
le donne
ci aspettavano
e
sentendoci gridare
piangevano.
Ma
l’attenzione poetica non mira tanto all’azione ed
agli obiettivi da raggiungere, in cui la poesia engagé ha
spesso rischiato la retorica parenetica ed il realismo descrittivo: sta
invece nel riflesso interiore dei protagonisti, nel dramma avvertito di
dar testimonianza senza badare al risultato, nella amarezza di dover
negare il mondo e dar sofferenza per vedere affermata la
verità, con la ordinata stanchezza della determinazione.
L’eroe è così diminuito a dimensione
umana sempre in conflitto con un limite:
Davvero eri stanco
se mi pareva di
vedere sulle tue spalle
il peso di
tutto quanto il mondo
e tu restavi
inchiodato
al
tuo silenzio opaco
come
un uomo dall’entusiasmo mozzato.
Eri
stanco. Ma io sapevo
cos’era
la tua stanchezza
quella vecchia
bestia
ch’era
sempre in agguato
e
lascia le sue impronte
sulla passione
più viva
sull’amore scoperto
su quella norma
di vita
che
per la pietà
ci
faceva spietati.
A stimolare
il protagonista era “la nostra grande voglia/ di seppellire
il male”; ed aggiunge: “per strapparti di dosso/
quella tua stanchezza/ ch’era pure la nostra/ non ti dicevo
di aspettare la fine/ ma di cominciare da capo…”.
La motivazione della crisi si trova già nella riflessione
disperata sul vano entusiasmo della azione: “Disseccata -
pensavo/ come le fosse d’acqua d’estate/ la nostra
fede muore nel silenzio/ e il male riemerge…”.
E conclude:
Ho fatto ciò che mi era
dato di fare
ed anche se
oggi mi riesce difficile
ho abbastanza
coraggio
per non
prendermi la testa fra le mani
e restarmene
solo
a
pensare al mio amore perduto.
Non c’è soltanto completa dedizione nel rapporto con il movimento, con la struttura organizzata, ma già compare una oggettiva, forse non voluta ironia nel tratteggiare il compagno della direzione:
Venne il compagno della direzione.
Parlò
bene, per un paio d’ore
e col calore di
chi nell’analisi
ci ha messo
tutta la sua passione.
Poi, mentre si
stava ad ascoltare,
disse che le
cose da noi
comunque
andavano male.
Ci fu
lo starnuto del vecchio
il
solito sputo per terra
il raschio di
gola e la sedia
spostata col
più grande rumore.
Ma a nessuno
passò per la testa
di parlare.
Seri,
con il cuore pesante
e le
mascelle contratte
fino a farci
male:
c’erano
tante cose
di
certo da aggiustare.
Finché lì, dal suo posto
come se non ci
fosse nulla di grave
il compagno
della direzione
disse tranquillo
che
bisognava darsi da fare.
E con
la faccia migliore del mondo
semplice e ferma
com’era
la sua voce.
Ma ora la vita di ogni giorno impone le sue regole ed il rovescio degli entusiasmi incalza periodicamente e poi definitivamente lo sommerge:
Il mattino comincia con le solite cose
poi ti metti al
lavoro
e non ti accorgi
nemmeno
che il tuo
pensiero somiglia
all’ultimo slogan di Carosello.
Prevale il
cosiddetto buon senso e così: “il sole ristagna
nel tuo cuore/ e cresce la muffa/ sulla tua sciocca saggezza”.
Occorre pure conservare il rapporto con gli altri; con chi si impegna
nella discussione, ed il tono diventa beffardo: “Lui pensa,
ragiona/ ha l’arte del dire/ ma non riesce a capire/ che in
tanta sapienza/ a volte ci vuole/ anche un po’ di
coerenza”. O con il collega:”Se avessi almeno il
pudore/ di metterti da parte/ mi risparmieresti la briga/ di occuparmi
di te./ Ma tu hai tanta arte/ e tanto gusto che/ nonostante il pessimo
umore/ che ti costa la fatica/ di fare il tuo dovere/ continui
‘siccome suole’/ a dire che credi/ nel tuo
mestiere”. Si può dire di lui: “Pare che
pensi/ quel tanto che basta/ per appartenersi”.
In questo clima il dialogo con gli altri sulle cosiddette questioni
concrete, la presunta razionalità, la ponderazione
nell’agire diventa un vaniloquio assurdo e scontato:
In merito
al misfatto compiuto
al dialogo
avviato
o al punto di
vista
nel caso indicato
nel fumo grigiastro
che
c’impasta la bocca
c’è sempre la soluzione
che alla fine ci
sblocca.
E facciamo pazienti
la nuova
previsione
che in tempo di
precedenti
ha pure il fascino
della confezione.
I giorni si susseguono uguali ed approfondiscono la disperazione. In “Deduzioni”, che è una delle dieci parti del volume, ogni giorno della settimana è scandito con una terribile conclusione. Citiamo “Mercoledì”.
Una sola parola d’ordine
in
tanto spreco
d’indifferenza:
patire con tutte le forze
la povertà morale
di
quelli che son pronti a
rinnegare
per sopravvivere morendo.
Oppure “Giovedì”:
Ormai è risaputo:
si cammina con
le mani avanti
a furia di sentirsi riprendere
dalla fredda chiarezza
dei raziocinanti.
O la conclusione di “Sabato”:
Per
troppa pietà
costretti alla convivenza
per troppa volontà
costretti all’impotenza
per troppa ragione
costretti all’incoerenza.
Ma
c’è uno spiraglio che ci aiuti a vivere?
“MENDICANDO L’AMORE/ TUTTO E’
DISPONIBILE”; cercando mani amiche come il più
antico segno di solidarietà nel buio: “Vedi: siamo
l’uno/ diverso dall’altro/ e a dirci parole/ a dare
un senso/ al nostro rapporto/ abbiamo avari slanci./ Ma il cuore, lo
sai,/ è già stanco/ e la ragione/ non
è più che un vizio/ di chi per viltà/
preferisce star solo”. “Chi potrebbe, allora,/
farsi nostro giudice/ e chi non capirebbe/ questi silenzi enormi/ e
queste nostre mani/ che si cercano nel buio”. Non rimane che:
“… come un figlio di cane/ stare lì a
guardare/ mani - a decine - di passanti”.
La riflessione si fa così meno disperata:
Come se tutto già fosse
deciso
e la pista già
fosse battuta
e lo scotto pagato
e la merce scomposta
con segni precisi del capo
estenuato e con la bocca muta
ti reggi sotto una frana
di sogni di pietra
e l’amore già suda
fatiche e pena.
E’ possibile sopravvivere solo accontentandosi di breve,
esile conforto:
Poterci parlare soltanto
così
senza preamboli
o assurde reticenze bizantine
poi con le mani alzate
come per un attimo di pace
insieme rivedere
l’equazione
al di là dello sforzo apatico
di darci un’altra ragione
sufficiente a sopravvivere.
Un momento di gioia è solo una anomalia della sorte:
L’anomalia di quando
un’indicibile dolcezza
un paesaggio infiammato
una stupenda chiarezza
il silenzio di quando
spalla a spalla
troppo innocenti
o troppo abbarbicati
al lume di una candela morente
il cielo si innalzava in un istante.
Occorre farsi una ragione “con discrezione” , con
ironia, “con un poco di zelo”, per
“ritrovare nel vanto/ della pazienza acquisita/
l’ultima pretesa”.
Ormai si è appresa la “regola del gioco”:
Manipolare
la vita a piacimento
assecondare l’ilare comportamento
di
chi ha da sempre capito
i
termini fluidi dell’andamento
e in
omaggio alla più lucida coscienza
ridurre a sotto zero la fatica
sprecata nella sopravvivenza.
Applicare ad ogni valutazione
il
marchio sublime della comprensione
o
uniformare l’intenzione
a
quella del più forte
lasciando alla propria sorte
il
privilegio soltanto della decantazione
nel
tanto che consente l’immaginazione.
E
complici di scontate soluzioni
senza
più il rischio di ulteriori dispersioni
vantarsi così di un gesto mancato
di un
sogno frustrato
se in
questo esistere e morire a poco a poco
ormai
consiste tutta la nuova
ineffabile regola del gioco.
Non sfugge alla regola nemmeno il letterato:
Lui
che ha avuto il culto
della
misura e della discrezione
(…)
un
giorno tranquillo
del secolo
nucleare
è
quasi riuscito a capire
di essere
inutile
e terribilmente
imbecille.
La storia che è così una specie di commedia
dantesca rovesciata, dal paradiso degli entusiasmi e della fede,
all’inferno dell’arido quotidiano, si conclude in
gioco, in un gioco di parole, usate non più nella dimensione
seriosa di un discorso significante, ma nell’automatismo dei
fonemi, del linguaggio burocratico e raziocinante per cui
l’assonanza e la rima diventano motivo d’ironia
distruttiva:
Pronunciarsi
sempre
e coi gesti solenni
delle valorizzazioni formali
poi
per un
poco
sottolineare il valore generale
o
per meglio dire
generalizzando la situazione particolare
per cui
tirate le somme
la verifica non
si pone
perché
inopportuna prematura
e solitaria.
L’aspetto più originale della poesia di
Mimì di Palo è proprio in questa caricatura del
discorso saputo e sicuro che vuol essere appropriato e convincente e di
cui invece si scopre la meschinità radicale,
l’ambivalenza irridente. E se si pensa che dietro il discorso
c’è la parola e nella parola il pensiero e la
civiltà dell’uomo, l’irrisione non
è più uno scherzo ma assume le dimensioni di una
tragica nullificazione. I termini in se stessi possono essere di un
discorso ufficiale d’un capo politico, alla guida di una
grande potenza, d’un sindacalista che raccoglie il consenso
di enormi masse, di uno scienziato che intende rivelare una
verità, d’un manager che concepisce un grandioso
progetto, ma messi in un certo ordine, con un piccolo spostamento dei
codici linguistici, assumono una significanza opposta ed esprimono il
pauroso vuoto della presunzione o la fragilità del
più solenne impegno umano:
Assimilato,
comunque, convenuto
totalmente identificato
testimone
compiaciuto
di
un’altra partita
dove
non resta
che
fingere la battuta
o prendere la
droga
dello status
conquistato.
E quindi
rifarsi a quel limite
assuefatto alla
bontà della sorte
e al prodotto
acquistato
al contenuto
nutritivo
e al
prezzo di mercato
persuaso così, dopotutto,
di
comporre la vertenza
coprire il
disavanzo
e dipanare - ad
ogni costo –
la questione
prima
delle vacanze.
Pur in mezzo a queste beffarde e spietate riflessioni, seriose ma di
colpo svuotate dalla allusione alle vacanze, la poesia dei sentimenti e
delle immagini (della immagine pura nella sua genuina
semplicità, che coglie il momento magico, in cui sentimento,
parola e ritmo si fondono insieme) non è esclusa dalla
poesia di di Palo. Compare improvvisamente in alcuni brevi versi alla
maniera di Umberto Saba, come questi: “Lei/ ha dato/ stasera/
passando di corsa/ segno di vederlo:/ Velocemente/ con un piccolo/
gesto/ della mano”; o in questi altri:
“… tu sei come l’acqua/ sulla tua pelle
bruna/ e i tuoi gesti di bambina”, dove l’assenza
di coordinazione crea una meravigliosa associazione di immagini.
Ma Mimì di Palo, al di là di questi squarci,
sente soprattutto la poesia tragica del destino dell’uomo, ma
dell’uomo storicizzato nella società, nei rapporti
di lavoro, nella relazione esistenziale, nella personale esperienza.
Per questa sofferta concretezza, che è anche limite alla sua
libertà, la sua poesia evita il linguaggio letterario
astorico che è tipico della solitudine provinciale: La sua
non è una poesia evasiva e consolatoria che derivi dalla
sconfitta, non si rinchiude nell’intimismo lirico, non si
appaga della sensazione esasperata e non rinuncia alla ragione. Si
sottrae sia sul piano contenutistico sia sul piano formale ad ogni
influenza scontata che sarebbe prevedibile in un professore di
letteratura italiana. Perciò è la sua una poesia
originalissima e moderna che scaturisce dal quotidiano, dal vissuto,
della concettosità delle terminologie convenzionali ed
utilizza strumenti e modi espressivi inusuali, antiletterari, cogliendo
nelle forme della comunicazione della società burocratica,
automatizzata ed alienata, cadenze, ritmi e banalità che
rivelano tutta la povertà espressiva che si nasconde dietro
la cortina di quei segni logico-fonetici che non si possono chiamare
parole.
Il sintagma, i termini, perdono il loro significato codificato ed
acquistano dai fonemi sapientemente accostati, da assonanze e contrasti
una intenzionalità opposta che non è parodistica.
Il verso senza misura, lapidario e sentenzioso, apparentemente solenne
ma come deformato riesce ad esprimere così il dolore della
caduta, dello svuotamento, non solo dei propri ideali e d’un
certo tempo, ma dei valori dell’uomo e della vita
contemporanea nelle sue manifestazioni più comuni, che il
poeta sembra disprezzare ma che, con profonda tensione morale, vuole
invece chiamare, recuperare ad una irrinunciabile salvezza.
La poesia di Domenico di Palo non si può dire nemmeno
impegnata, civile, come ha detto qualcuno, engagé insomma.
Pur scaturendo dalla drammaticità d’un particolare
momento culturale non vuol essere persuasiva di una soluzione, non
è databile. Anche il richiamo del privato familiare, la
terraferma del vincolo affettivo, il padre, la moglie, i figli, che pur
compaiono a tratti come temi poetici, non sfuggono al
“rimorso del non dato”, al silenzio stupefatto,
alla percezione dell’annichilimento.
Ho avvertito in di Palo una poesia della crisi del mondo contemporaneo,
vista attraverso l’insignificanza di qualsiasi discorso, la
convenzionalità scoperta dei rapporti sociali, il
depauperamento dei valori, la fragilità e
provvisorietà degli affetti.
Semmai l’aspirazione di fondo, “il problema reale
è l’uso perenne della libertà
totale” che la vita però, in quanto tale, nega.
Insomma Mimì di Palo è un romantico, inguaribile
anarchico.
Giovanni De Gennaro
*Per la presentazione de “La bella sorte” a Molfetta, Sala dei Templari, il 10 aprile del 1986; poi pubblicato in “Singolare/Plurale”, n. 46, Trani, 1986.