Domenico di Palo

FRANCESCO BELLINO


Il volume di poesie “La bella sorte” (La Vallisa, Bari 1985), con una nota di Maria Marcone e disegni di Ivo Scaringi) raccoglie le tappe dell’itinerario poetico dagli anni Sessanta ad oggi di Domenico di Palo. Non si tratta, però, soltanto delle tappe di un poeta, ma di un’intera generazione, che ha percorso in questi anni un arco di tempo tra i più cruciali e accelerati della nostra storia.

Sono stati anni disuguali, diversi, spesso non solo i suoi decenni, ma anche i suoi quinquenni, e a volte anche i singoli anni sono stati contraddittori tra di loro. Mai la storia è cambiata tanto come in questi anni ad un ritmo così accelerato. Dal boom economico agli anni dei sogni, delle utopie e delle lotte sociali a quelli di piombo, del riflusso nel privato, del disincanto e della disillusione e infine del gioco ironico con il passato, con la vita e con noi stessi, gioco in cui tutto è serio e importante e nulla va al tempo stesso preso sul serio e considerato importante.

Il taglio con cui le cesure tra gli anni hanno scandito i vari segmenti del tempo è stato spesso troppo doloroso e veloce, perché la coscienza umana potesse “digerire” gli anni e unificarli nel flusso omogeneo e continuo del tempo, come accadeva nel mondo contadino.

Le cesure, i tagli, i segmenti sono il timbro di questi versi, che, come ha annotato Giuliano Manacorda, sono formulati linguisticamente su “registri diversi”. La lingua di questi versi spazia, infatti, “dalle brevi cose iniziali, via via, quasi crescendo su se stessa, a composizioni più ampie, per poi tornare al linguaggio breve e infine alle “filastrocche” in appendice”.

Sono proprio questi registri diversi della lingua poetica di Di Palo che, a lettura ultimata, danno la sensazione che non sia stata la stessa mano a scriverli, ma una “equipe” di poeti.

Eppure questi versi hanno al fondo una loro unità.

Tutta la poesia di Di Palo, a mio parere, nasce da due poli: dagli ideali, dai sogni (lo stesso poeta si definisce “bracconiere di sogni”), dal bisogno di “seppellire il male”, dall’amore assoluto della giustizia, dalla lotta senza quartiere contro le ingiustizie e dalla delusa constatazione del riemergere del male, dei privilegi, della caduta dei sogni, che il Di Palo assume laicamente come le nuove divinità, dalla disillusione.

Il primo polo partorisce il timbro lirico della sua poesia, il volume più alto e metaforico dei suoi versi, come nella raccolta “Bivacco”, che è tra le più liriche del volume. Degni di catalogazione sono i seguenti versi di questa raccolta: “… sopraggiunse l’alba/ a impallidire l’assurdo delirio/ di una notte di stelle/ che faceva risacca/ sui cocci sparsi per la strada./ E ci poggiammo al giorno/ come il gabbiano si poggia allo scoglio/ stanco di scrivere in cielo/ la sua domestica libertà.”…; “Eravamo bracconieri di sogni/ rintanati all’addiaccio/ con le fiamme che in dialogo/ frantumavano una sera di aprile.”.

Dal secondo polo deriva il timbro prosaico, come il tono discorsivo dialogico e raziocinante di alcuni componimenti, l’atteggiamento ironico e corrosivo nei confronti della storia, degli uomini, di se stesso; infine l’atteggiamento gnomico del poeta nei confronti della vita. Il clima poetico è dato in particolare dai seguenti versi: “Disseccata -  pensavo - / come le fosse d’acqua d’estate/ la nostra fede muore nel silenzio/  e il male riemerge/ da chi se la cava ancora/ a buon mercato.”; “In questo esistere e morire a poco a poco/ ormai consiste tutta la nuova/ ineffabile regola del gioco.”; “L’abilità d’integrarsi/ e la storia del buon viso/ al cattivo gioco/ le trame combinate/ dopo la formulazione/ le palpebre gonfie di sonno/ e di carta stampata/ e fino attraverso le ossa/ il peso che si addice./ Ed organizzi la nozione/ fermo ad ogni assalto/ già dentro l’ironia/ di questa bella sorte.”.

La ricerca di “un’altra ragione” rispetto a quella strumentale ed economicistica del mondo sociale dominante pervade tutto il volume. Quest’altra ragione, quando si sposa al polo del sogno e dell’utopia, è una ragione più che sufficiente  di vita; quando, invece, incontra la prosa del mondo e le sue disillusioni, diventa appena “sufficiente a sopravvivere”.

Vita e sopravvivenza, sogno e realtà, ragione e sentimento, pubblico e privato sono i binari di questi versi, che sono una significativa e autentica testimonianza storica e spirituale di come un uomo ha cercato di affermare la propria dignità nel difficile mestiere di vivere in tempi così difficili e travolgenti come quelli dal 1960 ad oggi.

 Francesco Bellino

* In “Singolare/Plurale”, n. 1 (40), Trani , 8 marzo 1985).

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