Domenico di Palo

FRANCO BOTTA


Sono convinto che si debba essere tutti davvero grati a Domenico di Palo per essere riuscito - grazie anche all’impegno profuso da Anna e Nicola Scaringi – a progettare e a realizzare, in così breve tempo dalla scomparsa del Maestro (avvenuta, a 61 anni, nel giugno del 1998) questa monografia dedicata ad Ivo Scaringi (IVO SCARINGI, Mario Adda Editore, Bari 1999).
Si tratta, infatti, di un libro ricco di questioni e di presenze, ospitando molti autori e testi scritti in occasioni diverse e in arco cronologico ampio. Tutti si riferiscono ad Ivo Scaringi e al suo lavoro, ma si parla anche della Puglia e del Mezzogiorno, delle condizioni politiche e sociali, dell’isolamento degli artisti e della necessità di trovare i rimedi alla disgregazione che tanto ha pesato e pesa sulla vita culturale del Sud.
Sia nella parte introduttiva, scritta per l’occasione dall’autore del volume, che nelle altre sezioni (l’antologia critica, le interviste e le dichiarazioni di poetica e le testimonianze) il discorso parte da Ivo ma inevitabilmente si allarga - e non può essere diversamente, essendo Scaringi impegnato da sempre contro ogni forma di “arte gastronomica” - e spazia, parlando del rinnovamento sia dell’arte che della società nella quale viviamo. Il Maestro tranese infatti pensava - lo scrive, in uno dei testi del libro, Pietro Marino - che “per essere artisti bisogna essere morali con se stessi e con gli altri (solidali)”.
Con il proprio lavoro, ma anche promuovendo mostre collettive e aggregazioni (fu tra i più attivi nel gruppo “Nuova Puglia”), Ivo Scaringi voleva contribuire al dialogo tra i pittori e le altre arti, pensando che questo dialogo potesse produrre nuovi e importanti stimoli sia per gli artisti che per quanti ambivano a vivere in una società più giusta, attenta ai bisogni dei più deboli. Propugnatore di un’arte capace di dire cose rilevanti - come ricordano Vittore Fiore e molti altri - egli contribuì generosamente alle battaglie culturali svolte per disincagliare il discorso meridionalistica dalle secche nelle quali si trovava già sul finire degli anni Settanta.
Il libro è un o di quei volumi che induce in tentazioni e che coinvolge il lettore, sia per i numerosi testi che per le foto che danno conto del talento e del lavoro rigoroso svolto dal pittore tranese.
Chi scrive poi si trova in una situazione del tutto particolare, avendo condiviso in gioventù sogni e battaglie con Ivo e l’autore del volume in questione. Si è tentati dai ricordi e dai sentimenti, ma di questo si potrà dire in altra sede. Qui si cercherà invece di limitarsi a cercare di fornire alcune chiavi di lettura utili per comprendere e valutare il lavoro di Scaringi e la sua vicenda umana, avendo come filo conduttore il lavoro svolto dall’autore della monografia.

Della vita culturale e dell’amicizia
Il libro, dunque, racconta di Ivo e ricostruisce una fase lunga della vita intellettuale pugliese, ma racconta soprattutto di un’amicizia tra il pittore e un poeta (di Palo è un polemista, un critico d’arte e molte altre cose, ma è soprattutto un poeta).
Si tratta di due intellettuali che non solo usano un diverso mezzo espressivo (il primo usa la spatola, i pennelli e i colori, il secondo la penna e la macchina da scrivere, ritenendo ancora oggi il computer uno strumento poco incline alla poesia), ma che hanno anche due caratteri profondamente diversi. Il poeta è irruente, usa la scrittura ma anche la voce, spesso in modo congiunto (legge e recita i propri versi). Quando ha voglia di dire, non nasconde i suoi pensieri e sa essere aggressivo, graffiante e tenero, crede fortemente nella potenza delle parole, scritte o solo dette: Il pittore invece è taciturno e ironico e si esprime solo con le sue tele e con i suoi disegni, pensa che non tutto può essere detto o deve essere gridato, dipinge lasciando a volte zone grigie o dipingendo oggetti, come i “fagotti” che non lasciano trapelare il loro contenuto (interrogato in proposito, dichiara che questi possono contenere ciò che ciascuno vuole). Per Ivo - come sottolinea la Zingarelli dopo averlo incontrato - “le parole tradiscono”: egli diffida della voce e vuole che a parlare per lui siano i suoi quadri; l’altro invece -il poeta - crede nella potenza del verso e nelle possibilità delle parole.
Tra i due vi è stata amicizia lunga e fruttuosa, ma resa difficile da questa abissale diversità. Il libro registra tutto, anche per l’onestà di di Palo.
Non sono certo mancate dunque le incomprensioni tra i due ((è soprattutto il silenzio di Ivo ad inquietare il poeta, e questi non esita a usare la sua penna per incalzare l’amico, per spronarlo a fare uso della parola.
Ma il libro racconta soprattutto di come i due intellettuali, così diversi, siano riusciti a lavorare spesso insieme e in che misura ciascuno dei due ha poi usato il proprio talento a sostegno del lavoro dell’altro.
Il tema dell’amicizia è una parte importante del libro e lo si ritrova in più parti. Lo stesso Ivo, ad esempio, ricorda in una conversazione in che misura gli siano stati utili i continui commenti avuti dall’amico de Zio. De Zio, un uomo curioso e colto, uno studioso di architettura e di arti visive, ha alimentato con osservazioni continue il lavoro di Ivo, e questi infine, parlando con luii, esclama: “Tu sei per me l’escavatore che tira fuori tutto quello che c’è e che non sapevo ci fosse”.
Quando si è in presenza di un libro ricco di questioni, ogni lettore poi sottolinea le cose che lo hanno colpito di più. E tra i modi possibili, a me sembra che uno di qualche interesse sia proprio questo: leggerlo come un libro che racconta delle amicizie che a volte si creano in gioventù e che alimentano spesso i guasti che la povertà della vita culturale del Mezzogiorno produce. La verità è che la vita culturale, come ogni altra forma di vita umana, è un’attività sociale: lo è sia dal lato del consumo che della produzione. La disgregazione sociale, penalizzando le collettività e gli individui, rende spesso impossibile o estremamente difficile ogni forma di vita intellettuale e le vicende di Ivo Scaringi ci ricordano che le amicizie costruite sulla voglia di fare possono, a volte, aprire spazi utili alla sopravvivenza dei singoli e dei gruppi.

Sul silenzio e sulla solitudine di Ivo
Ma il libro di Domenico di Palo consente soprattutto di capire Scaringi, il suo modo di lavorare e il suo progetto di ricerca. Ivo non solo era un uomo silenzioso, ma amava la solitudine, ritenendo che questa fosse la condizione indispensabile per sentire il silenzio, per dare forma ai progetti segreti, alle realtà che devono ancora compiersi (si vedano ancora i quadri con i “fagotti”). Volendo trovare un filo rosso nel suo percorso di ricerca, si può dire che egli era attratto dal silenzio. Nella prima fase - negli anni giovanili - i protagonisti nei suoi quadri sono le persone di umili origini, quelle spesso incapaci di usare la lingua scritta o quella orale in modo sufficiente a farsi intendere. Sono, infatti, prima i contadini senza terra (i braccianti), i senza lavoro, gli operai, i vecchi e le donne lavoratrici ad attrarre la sua attenzione. Con il segno e con il colore ne ricostruisce i volti e i corpi segnati dalla fatica del vivere, mostra le sofferenze, l’umanità e la voglia di riscatto delle genti del Sud. In seguito sono le creature silenti (gli oggetti e i materiali) ad attrarre in modo crescente la sua attenzione, anche se mai rinuncia alla figura e ai volti.
Per Ivo la cosiddetta solitudine è la condizione indispensabile per un lavoro di ricerca oltre che un proprio modo di essere”. Questo non solo viene detto esplicitamente dal Maestro, ma lo si può verificare scorrendo il materiale iconografico che correda il bel libro di di Palo.
Mi sembra che si veda agevolmente che siamo in presenza di un progetto artistico non solo teorizzato ma praticato in modo coerente. Ivo Scaringi voleva e ha dato, con tele bellissime, visibilità al silenzio. Ma scegliere il silenzio come tema di ricerca, teorizzare e praticare la solitudine come condizione per realizzare il proprio progetto significa poi trascurare la vita relazionale, rinunciare ad accumulare quel capitale particolare (il capitale relazionale) che è poi la risorsa che consente agli artisti di avere successo sul mercato. Scaringi considerava invece le relazioni professionali, il tempo dedicato a catturare l’attenzione delle persone che operano e influenzano il mercato (galleristi, critici, collezionisti, ecc.)) il tempo perso, tempo distratto ad attività più importanti (a propria arte, il lavoro di docente, il tempo dedicato alla famiglia e agli amici).
Vi era in questa scala di valori non solo una sfiducia di tipo ideologico verso il mercato, ma soprattutto una forma di difesa dei suoi ritmi di artista, che erano ritmi lenti, tempi lunghi, i tempi dell’artigiano o del contadino. Tutti lo abbiamo sentito dire ridendo. “Sono un pittore lento”. Aveva infatti bisogno di lavorare lentamente, di riportare più volte sul cavalletto la stessa tela a distanza di tempo, prima di licenziare un quadro, prima di considerarlo finito. E questo mal si conciliava con il mercato nel quale come artista era collocato. Egli infatti rifiutava i tempi che i galleristi fissano, non voleva impegni a tempo e soprattutto voleva mantenere aperta la sua ricerca, si rifiutava di ripetersi, di capitalizzare il successo avuto. Si rifiutava di produrre in modo ripetitivo in modo da essere più facilmente visibile ai collezionisti e ai critici. Molti di questi venivano nel suo studio, a Trani, penando di ritrovare il segno che avevano già visto altrove e vi scoprivano invece tele del tutto diverse. E se ne andavano disorientati e scontenti.

Sui limiti del mercato in Puglia
Questo rifiuto del tempo dei galleristi si presta a qualche commento che spero sia di qualche interesse.
Ivo per vivere insegnava, e lo faceva con serietà e con passione. Ma questo lavoro gli prendeva tanto tempo, al punto che egli più volte dichiarava di “dipingere nei ritagli di tempo”. A pensarci bene, forse, se avesse accettato il mercato e i suoi tempi, non solo avrebbe avuto più denaro ma anche più tempo per la sua arte e per sé. Se non lo ha fatto non è perché non aveva capito questa verità banale. Nella sua scelta io credo che vi sia statto non tanto un rifiuto aprioristico e tutto ideologico del mercato, quanto il rifiuto delle forme che il mercato dell’arte ha in Puglia e in gran parte del Mezzogiorno: il suo carattere asfittico spinge gli artisti a rinunciare ad ambiziosi progetti di ricerca e a vivere di rendita, ripetendosi per assecondare i gusti. La mancanza di una committenza pubblica adeguata, di spazi e di occasioni espositive e di tutta una serie di altre iniziative e di strutture capaci di allargare il mercato, di consentire spazi per attività di ricerche impegnative hanno certamente pesato sulle scelte di un pittore come Ivo Scaringi. Egli era - sia come uomo che come artista - estremamente rigoroso, ma anche dotato di un grandissimo talento. Era bravo, forse il più bravo di tutti, come ha ricordato in più occasioni Domenico Viaggiano, il direttore dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, e non era certo impaurito dalla competizione, anche aspra, che il mercato richiede.
Non dobbiamo trascurare queste questioni, e leggendo di Ivo Scaringi e del suo lavoro dobbiamo vivere come una tragedia il fatto che si vive in luoghi nei quali non si riesce a pensare all’arte come ad una forma di conoscenza rilevante per la qualità del vivere collettivo, al patrimonio artistico come un capitale sociale da tutelare e da valorizzare, alla produzione artistica come produzione di beni pubblici la cui fruizione procura effetti positivi sul benessere dei singoli e della collettività.
In un video prodotto da Nicola Scaringi, il figlio di Ivo, vi è, tra alcune riflessioni del Maestro - riprese nel libro - una sua esplicita dichiarazione (quasi un urlo orgoglioso e strozzato) di sentirsi e di voler essere un uomo libero.
Nel rifiuto del lavoro salariato e nella difesa del lavoro di qualità, proprio del maestro artigiano, non possiamo vedere solo nostalgia per un tempo che non c’è più, ma anche una critica per un mercato ristretto, per un mercato che riduce le possibilità di ricerca. Ivo Scaringi va ricordato anche per questo, come un difensore tenace e puntiglioso della cultura del far bene il proprio lavoro, dei mestieri che sono il frutto di un lungo apprendimento, di professioni che sono e devono essere sempre pensate come una risorsa importante di un paese e che devono trovare un proprio spazio di mercato.
Come insegno ai miei studenti nei corsi di economia che svolgo all’Università di Bari, i mercati sono istituzioni capaci di garantirci molte cose, ma spesso molti di essi sono mercati incompleti, che funzionano male, creando diseconomie esterne. Non dobbiamo rinunciare a pensare che il mercato dell’arte esistente, quello che conosciamo, sia l’unico possibile - attraverso un diverso ruolo non solo del settore pubblico ma anche dei privati - creare le condizioni per un mercato più largo, un mercato nel quale vi sia spazio per la ricerca e per la qualità. Di tutto questo sono consapevoli in molti in Europa, e non mancano esperienze a cui possiamo rifarci, se non vogliamo rassegnarci all’idea che il destino di Ivo Scaringi era inevitabile e il suo progetto anacronistico.

Per finire
Non credo di essere riuscito a dar conto bene di tutte le questioni contenute nel libro che Domenico di Palo ci ha consegnato. Credo di averne ripreso solo alcune e di averle scelte con intenzione, volendo contestare l’idea che della morte - ricorda l’autore nel suo saggio introduttivo - ci ha lasciato Pier Paolo Pasolini: “La morte non è/ nel non poter comunicare/ ma nel non poter essere compresi”. Io penso infatti che dobbiamo continuare a dialogare con Ivo Scaringi, e impegnarci per rendere chiaro il senso del suo lavoro, in modo che altri portino avanti il suo progetto di ricerca di grande spessore (evitare di farsi sommergere dal rumore e dalle grida, prestare una maggiore attenzione al silenzio delle persone e delle cose), recuperando spazi per i tempi lenti dell’artigiano, perché sono quelli i ritmi che sono spesso necessari per produrre opere di qualità. Credo anche che si debba lavorare perché poi questi prodotti artistici abbiano una maggiore visibilità e un loro mercato.
Tutte queste cose sono possibili e di grande interesse sia per i singoli che per le collettività che vivono nel Mezzogiorno: abbiamo tutti da guadagnare da una vita culturale più ricca.
Il lavoro di Ivo Scaringi e il libro di Domenico di Palo ci ricordano tutto questo e davvero non è poco.

                            

                                                                                                                Franco Botta



*In “La Vallisa”, quadrimestrale di letteratura ed altro, nn. 56/57, Bari, agosto-dicembre 2000; poi in “Misure critiche”, anno XXVIII, nn. 105/108, Salerno, gennaio-dicembre 1998; e in “Il Giornale di Trani”, n. 13 del 12 luglio 2002.

< indietro