Domenico di Palo

ENRICO BAGNATO


Difficile racchiudere in una definizione esaustiva la complessa variegatezza della poesia di Domenico di Palo. Ci dà ora occasione di trattarne l’uscita del volume “La bella sorte e altri versi” (Editrice La Vallisa, Bari 1985, l. 10.000), che dopo un venticinquennio di laborioso silenzio segna il ritorno d’un poeta che prima nell’impegno militante e poi attraverso le calme del riflusso ha arricchito il proprio bagaglio d’esperienze e ha saputo maturare una personale visione del mondo e degli uomini e sviluppare in profondità un’analisi socio-esistenziale sulla condizione in cui si trova a operare un intellettuale del Sud, illustrandone in chiave ironico-polemica gli esiti ultimi: la “bella sorte” appunto che infine gli tocca – sorte davvero amara e alienante,ancorché subita con caustica rassegnazione – quando con incrollabile tenacia vuol serbare fede ai propri ideali e non scendere a compromessi.

Una lucida prefazione di Maria Marcone introduce i versi che anche accompagna un commento “visivo” del pittore Ivo Scaringi che ha dato corpo a immagini di materico spessore e intensa emblematicità.

Una costante nei versi di Domenico di Palo è l’intento gnomico che spesso deborda in accenti di polemica ideologica, ma per lo più prende di mira aspetti e fenomeni di costume etico-politico e allora sbotta in pungente requisitoria contro un certo stile tartufesco di taluni cosiddetti “impegnati”; oppure contro chi “Incosciente o irresponsabile/ a tutt’oggi/ continua a disporre di se stesso”; o ancora contro chi “Pare che pensi/ quel tanto che basta/ per appartenersi”.

La passione civile e la tensione morale dettano al poeta quest’alta e pensosa epigrafe che s’incide nella coscienza di tutti noi che viviamo questo tempo di crisi: “La nostra fede muore nel silenzio/ e il male riemerge/ da chi se la cava ancora/ a buon mercato”.

Il tragico susseguirsi di stragi criminali che hanno insanguinato il nostro paese suscita nel poeta un grido, un roco e sordo epicedio per i vivi e per i morti: “E cosa ci resta da dire/ per non confondere i vivi/ con questi altri morti/ per non vedere queste bocche/ aprirsi ancora/ e la memoria farsi di ombre/ e l’amore inghiottito/ in una folla di lacrime/ e di sangue sempre fresco./ Cosa ci resta da dire/ se ogni giorno il delitto si ripete/ e la morte se ne viene/ biascicando l’insulto/ del cecchino fascista”.

Perspicuamente Giuliano Manacorda ha osservato come nei versi di Domenico di Palo “una liricità privata e un impegno politico si bilancino con molta equità”. Dell’impegno del Nostro abbiamo offerto qualche saggio; circa il “privato” dobbiamo notare che esso si esprime liricamente lungo direttrici diverse: da un realismo intimistico che si riflette in immagini dense di significati esistenziali (“E ci poggiammo al giorno/ come il gabbiano si poggia allo scoglio/ stanco di scrivere in cielo/ la sua domestica libertà”); al sentimento d’amore, variamente rappresentato; a recuperi di una memoria ironico-affettuosa di persone e luoghi che prendono un colore di strapaese (“Donna Maria,/ grazie tante per la vostra cortesia/ che, dopotutto,/ si fa per dire,/ mi costa soltanto dodicimila lire,/ pagate, s’intende,/ posticipatamente”).

Per concludere ci sembra che Domenico di Palo sia un poeta interamente calato nella realtà del suo tempo, e che sappia esprimerne le ansie e le contraddizioni.


Enrico Bagnato

 

* In “Singolare/Plurale”, n. 2 (41), Trani 15 maggio 1985.

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